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Siamo giornalisti calabresi e siamo tutti esposti

Da Calabria Ora* il . Calabria

Pubblichiamo
il fondo apparso ieri su Calabria Ora scritto dai giornalisti della
redazione dopo l’ennesima minaccia subita da un cronista della testata
calabrese. Alla redazione di Calabria Ora, così
come a tutti i giornalisti e agli operatori dell’informazione calabresi
va la solidarietà della redazione di Libera Informazione, l’invito
ad andare avanti in una realtà dove
è sempre più difficile compiere il proprio dovere, e l’impegno a portare
avanti, insieme, la battaglia culturale per un’informazione libera e
indipendente in una Calabria libera dalla violenza e dalla sopraffazione
della ‘ndrangheta.
 

Presto ci spareranno addosso.
Perché capiranno che con le cartucce, le bottiglie incendiarie,
le telefonate, le minacce mafiose perpetrate nelle loro più variegate
forme non funzionano. Siamo giornalisti calabresi. “Infami, bastardi,
pezzi di merda” dicono gli stessi mafiosi intercettati nelle carceri.
E siamo tutti esposti. Noi che raccontiamo questa terra, e che la viviamo
perché è qui che lavoriamo, non siamo come quei “prodi”
censurati nel crudo fondo di Mimmo Gangemi su La Stampa del 5 gennaio
scorso, i quali “col posteriore degli altri” diventano eroi
frapponendo il giorno successivo “mille chilometri di distanza”,
dopo averci dato lezioni di civiltà” fistigando “l’omertà,
le bocche cucite, quanti non avevano avuto il coraggio di farsi intervistare
o di mostrarsi, di sillabare un nome, una condanna”. 

Sono gli stessi “prodi”
che ancora oggi tacciono, lasciandoci nella solitudine dei nostri confini
a fare quello che loro, privi dell’umiltà d’imparare a conoscere
davvero questa terra, avamposto del Mezzogiorno, hanno provato a fare
solo per “una sera”. Per questo diciamo che tutti coloro che
nelle redazioni dei giornali calabresi si occupano di nera o giudiziaria,
o che comunque nel loro lavoro quotidiano fanno inchiesta toccando le
commistioni perverse fra poteri forti, indipendentemente se rientrino
o meno nel novero dei già minacciati, sono sovraesposti. 

Qui c’è la ‘ndrangheta,
che prima di essere l’organizzazione criminale più potente a livello
planetario, quella che ammazza e traffica droga, quella che stringe
patti con la politica e l’alta finanza, è “cultura”. Una
“cultura” che noi siamo costretti ad affrontare ogni giorno,
nelle aule di tribunale come fuori dalle questure, per le strade, nei
bar. Oggi tocca al nostro Lucio Musolino, ieri ad altri colleghi di
Calabria Ora, o del Quotidiano della Calabria o di qualsiasi altra testata.
Domani toccherà ad altri colleghi ancora. 

La Federazione nazionale della
stampa porta il nostro caso all’attenzione del capo della Polizia e
dei singoli prefetti, mentre solo grazie ad un libro realizzato dai
colleghi Roberta Mani e Roberto Rossi o all’amicizia di pochi inviati
della grande stampa, qualche testata nazionale dedica poche righe alle
nostre vicende.

Sia chiaro al mondo: noi non
vogliamo pubblicità, perché le intimidazioni non sono per noi galloni
d’appiccicare sulle spalle. Chiediamo solo che la resistenza civile
della stampa calabrese tutta – perché in questa sede noi di Calabria
Ora vogliamo superare i distinguo e gli steccati della concorrenzialità
fra testate – trovi sostegno da una categoria che si ricorda della Calabria
solo se viene giustiziato il vicepresidente del consiglio regionale
con l’unica colpa di essere un uomo perbene, se i sanlucoti compiono
una strage a Duisburg, se una ragazza muore per un black out in sala
operatoria o se gli immigrati di Rosarno si ribellano alla protervia
dell’inciviltà. 

Aveva ragione Mimmo Gangemi,
abbiamo il “diritto di non essere eroi” e, aggiungiamo, di
non diventare martiri. Perché noi vogliamo solo lavorare, lavorare
bene, e in pace, animati da quell’impegno morale e civile che ci spinge
solo a compiere quotidianamente il nostro dovere. Ha ragione il nostro
sindacato, qui non viviamo nel terrore; d’altro canto però, non possiamo
negare che spesso la preoccupazione ci assale. Perché il clima che
ci avvinghia si ripercuote sulle nostre famiglie, prima che sulle nostre
redazioni. E perché, in Calabria, al giornalista non è riconosciuto
il ruolo che gli appartiene. 

Facciamo cronaca spesso costretti
a mendicare atti dagli stessi avvocati dei mafiosi di cui scriveremo
il giorno dopo. Magari proprio di quei mafiosi che si siedono al nostro
fianco durante un’udienza, o che ci fissano in cagnesco dalle sbarre
mentre sotto i loro occhi prendiamo appunti. Stiamo da questa parte
del nastro bianco e rosso, assieme ai familiari dell’ennesimo morto
ammazzato di una faida che non fa rumore oltre il Pollino e lo Stretto.
Per gran parte dei nostri politici siamo solo degli spioni che non si
fanno mai gli affari loro, mentre magistrati e poliziotti sono costretti
a guardarsi con circospezione ogni qualvolta ci avviciniamo anche solo
per chiedere notizia su un’udienza preliminare o su un arresto. 

Diamo il massimo, ogni santo
giorno, per offrire un servizio al lettore, per informarlo, per alimentare
la sua conoscenza su fatti di straordinario rilievo pubblico dei quali
finalmente si scrive e che continueremo a scrivere , nonostante tutto.
Non vogliamo essere né eroi, né martiri, vogliamo solo fare il nostro
lavoro, il nostro dovere. Sperando di non doverci rassegnare alla solitudine.

*SCRITTO DAI GIORNALISTI DI
CALABRIA ORA tratto dall’edizione del 2 agosto, pagina 5 

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