«Palermo come Beirut»
Cielo terso e azzurro,uno di
quelli che solo la Sicilia sa regalare in piena estate,aria già
tiepida alle prime ore del mattino presagio di una torrida e torbida
giornata. Via Pipitone Federico, in un noto quartiere residenziale si
sente piacevole la calma delle assolate mattine palermitane: la città
è semivuota. Il magistrato Rocco Chinnici, nel suo appartamento al
terzo piano, si è alzato di buon ora, come del resto faceva ogni mattina,
e sta lavorando alle sue carte nello studio, con la finestra del balcone
aperta. Già le otto, la via è più animata, il portiere, Li Sacchi,
ha aperto la portineria; passa qualche vettura. Arriva la blindata di
Chinnici, l’Alfasud dei Carabinieri della scorta, con a bordo il maresciallo
Trapassi e l’appuntato Bartolotta. C’è anche una gazzella dei Carabinieri
che da qualche tempo, a causa delle sempre più pesanti minacce al Giudice,
deve rinforzare la sorveglianza. Un saluto affettuoso ai familiari e
poi giù per le scale.
Una giornata qualsiasi, quel
29 luglio, sono le otto e dieci. Una devastante esplosione scuote ferina
l’intero isolato. La 126, imbottita di tritolo è fatta esplodere
con un comando a distanza nell’istante in cui Chinnici, per salire sulla
blindata, è obbligato a passarvi accanto. Palermo come Beirut, titoleranno
i giornali. Ma questa immagine non rende abbastanza. Sul selciato, tra
le carcasse delle automobili, si distinguono a stento i corpi privi
di vita. Oltre Rocco Chinnici, Mario Trapassi, Salvatore Bartolotta
e Stefano Li Sacchi. Nell’auto di servizio, Giovanni Paparcuri, parzialmente
protetto dalla blindatura. Decine di feriti e tra questi due bambini.
Era la preoccupazione maggiore, per Rocco, di poter coinvolgere in un
eventuale attentato un familiare, un passante, un uomo della scorta.
Infissi divelti, intonaci scollati, asfalto fratturato. Una ferita profonda
alla coscienza civile cittadina, anche a quella parte usualmente indifferente
o convinta che, in fondo, chi ha questa sorte se la vada un po’ a cercare.
Uno scenario impensabile in un paese civile. Eppure destinato a ripetersi.
Altre due volte: 23 maggio 1992 Giovanni Falcone, 19 luglio 1992 Paolo
Borsellino.
Rocco Chinnici è nato
a Misilmeri (PA) il 19 gennaio del 1925. Dopo essere stato pretore a
Partanna, viene trasferito al tribunale di Palermo presso l’ufficio
istruzione. Convinto assertore del metodo collaborativo dei magistrati,
li esorta a unire le loro competenze e carteggi. Riesce a fare emergere
un gruppo particolarmente capace, che annovera Giovanni Falcone ma anche
un “emarginato” Paolo Borsellino. Ottiene molti successi giudiziari
nel campo delle indagini sul traffico di droga, ma il suo merito maggiore
è essere arrivato a un passo dall’arresto dei cugini Salvo, che di
fatto gestivano la parte economica dei proventi mafiosi attraverso una
esattoria che controllava praticamente tutta l’economia isolana. Il
suo metodo investigativo lo porta anche a un passo da mandanti ed esecutori
di due efferati omicidi di mafia, quello di Pio La Torre (30 aprile
1982) segretario regionale del Pci e quello di Piersanti Mattarella
(6 gennaio 1980), presidente della Regione. Conduceva indagini molto
mirate in un’epoca in cui non c’era antimafia né metodi di ricerca
scientifica adeguati. Rocco Chinnici un precursore del pool antimafia
per lo Stato, un magistrato scomodo per Cosa nostra.
*Corleone Dialogos –
(http://www.corleonedialogos.
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