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Media e narcos, tra violenza e manipolazione

Di Stefano Fantino il . Internazionale



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Non è difficile trovare una giornata
nera per la libertà di stampa in Messico. I continui massacri, le
“lupare bianche”, i rapimenti, sono ormai, purtroppo, un fatto
quotidiano. Ma quel ventidue giugno di sei anni fa marchiò
indelebilmente il Messico. Cinque giornalisti erano già stati uccisi
nel 2004, ma quel nuovo omicidio nell’estate appena arrivata fece
crescere la protesta della società civile. Il giornalista del
periodico di Tijuana “Zeta” Francisco Javier Ortiz Franco fu
ucciso a colpi di pistola davanti ai figli di otto e dieci anni.
Nell’ottobre successivo una manifestazione di giornalisti in sedici
città del Messico, al grido di “Ni uno mas” (Neanche uno in
più), portò il caso davanti al governo federale. Da lì l’inizio di
una attività investigativa seria che però non ha prodotto, né nel
caso Ortiz Franco né in altri casi, risultati soddisfacenti.

E il giornalismo in Messico ha sempre
dovuto affrontare una sfida più che professionale per fare il
proprio dovere. La vita messa in gioco ogni giorno è diventata
questa sfida. Altre strade praticabili non ve ne sono a meno che non
si considerino tali la collusione coi narcos o l’autocensura, un
rischio quest’ultimo che già cinque anni fa in un rapporto sul
Messico Rsf metteva in luce. E se un giornalista decide di fare il
suo dovere fino in fondo, entra in un pericoloso vortice entro il
quale il convincimento a smorzare i toni assume strategie differenti.
«Parlare di un cartello significa cattiva pubblicità per loro e un
potenziale vantaggio per un cartello rivale». Su questo filo corre
il rapporto tra media e narcos, una costante rincorsa non solo a
censurare la stampa ma ad utilizzarla per i propri fini di prestigio,
immagine, potere. Dalle violenze fisiche alla corruzione, alla voglia
di manipolare ciò che viene detto, la storia recente del giornalismo
messicano è piena zeppa di vicende esemplificative. Andiamo ad
approfondirle.

Narcos e informazione, la via violenta

Da anni le minacce della mano armata
dei cartelli nei confronti giornalisti hanno ormai portato ad
un’autocensura dei mezzi di informazione, che in situazioni
terrorizzanti come quelle che caratterizzano Nuevo Laredo, Ciudad
Juarez e Tijuanam sono costantemente sviati dal loro mestiere dalle
violente intimidazioni dei sicari narcos che obbligano i giornalisti
a pubblicare verità parziali o a ometterle totalmente. Pena la morte
come tragicamente dimostrato dalle varie esecuzioni sommarie come
quella di Enrique Pere Quintanilla, trovato con due pallottole nel
corpo, una nel torace e l’altra in testa, avvenuta nella regione di
Chihuahua il 9 agosto 2006. Quintanilla fondatore ed editore del
mensile «Dos caras, una verdad» (due facce, una verità) era
specializzato in reportage sui crimini del narcotraffico messicano e
aveva messo in luce i rapporti di connivenza fra élites locali e
potere dei narcos. Un argomento troppo pericoloso per essere
liberamente affrontato, secondo i narcos. Qualche anno fa la
testimonianza rilasciata da Jesùs Blancornelas, al tempo direttore
dell’autorevole settimanale messicano “Zeta”, lo stesso dove
lavorava Ortiz Franco, sul sito di “Reporters Sans Frontierès”
confermava come la situazione nella quale operano i giornalisti in
Messico sia diventata tra le più pericolose del pianeta.
L’intervista rivelava in tutta la sua tragicità il clima
d’impunità che si respirava e si respira tuttora in Messico,
specialmente nelle zone calde (come quella di Tijuana e di tutta la
frontiera con gli Stati Uniti) dove i narcotrafficanti spadroneggiano
con ancor maggiore libertà, mettendo a tacere chi ha il coraggio di
denunciare le attività illegali legate al commercio di droga. I casi
cruenti non mancano di certo. A marzo del 2005 la radiocronista
Guadalupe Garcia Escamilla, dopo aver ricevuto numerose minacce di
morte, era stata uccisa con nove colpi di pistola all’uscita del
suo ufficio in Nuevo Laredo. Un caso inquietante come quello accaduto
al periodico «El Mañana». Il 5 febbraio 2006 il giornale pubblicò
la foto di un agente della polizia federale preventiva (Pfp) ferito
che era fortemente sospettato di essere legato al cartello di
Sinaloa. Il giorno seguente, due sicari mascherati assaltarono la
redazione a colpi di pistola e lanciarono all’interno una granata
che ferì gravemente un reporter. Il risultato della missione
punitiva fu una terribile autocensura. L’editore del «Mañana»
dovette scrivere una lettera ai lettori «per scongiurare qualsiasi
altra infiltrazione, si è deciso di sospendere la pubblicazione di
qualsiasi reportage che tratti di crimini legati alla guerra tra
narcotrafficanti».

Narcos e informazione, la via della
manipolazione

Il silenzio dei media, indotto tramite
sopruso e violenza, è da tempo stato affiancato da un altro metodo
per impedire la denuncia sociale del giornalismo: la manipolazione
del contenuto. I cartelli, infatti, hanno utilizzato i mezzi di
comunicazione ai propri fini nella lotta contro gli avversari. La
censura preventiva di notizie che minavano l’aura di imbattibilità
di alcuni sicari narcos (come i Los Zetas, che impedivano la
pubblicazione di notizie riguardanti la morte di alcuni loro
componenti) vanno di pari passo con veri e propri articoli,
finanziati dai cartelli, che mettono in luce la barbarie di cui sono
capaci gli avversari. Il trafficante Edgar “La Barbie” Valdez
Villareal, del cartello di Sinaloa e capo dei Negros (che fino a
qualche anno fa erano l’alter ego de Los Zetas prima che questi
diventassero a loro volta un cartello), era solito acquistare pagine
di pubblicità in cui attaccava Los Zetas e il cartello del Gulfo con
precise accuse. Proprio i Los Zetas hanno sempre intrattenuto un
rapporto particolare coi media. Gli ex paramilitari hanno sempre
cercato di influenzare i giornali per creare delle campagne
mediatiche atte ad accendere i riflettori sui rivali. Un modo per
mettere in luce i crimini e la violenza dei cartelli rivali evitando
di mostrare le proprie debolezze. Una pratica molto in voga è quella
del “levantòn”, ovvero il prelievo forzato di un giornalista che
viene condotto in giro in macchina per ore, minacciato, malmenato e
istruito su come coprire la notizia. Perché i Zetas non amano vedere
sui giornali le loro sconfitte, le loro morti, il lato negativo della
loro presenza. Si minerebbe l’aura di invincibilità che essi stessi
alimentano. Sui media deve invece finire il potere dei Zetas e le
malefatte dei nemici, accuratamente segnalate con articoli e
fotografie dal cartello.

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