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Dopo l’attacco al «cuore dello Stato»

Di Daniela Spinella il . Interviste e persone

Arrivò 
a Palermo in una fase delicatissima della lotta fra lo Stato e l’organizzazione
criminale, Cosa nostra. Era il 1993 e Gian Carlo Caselli, magistrato,
oggi Procuratore capo di Torino, chiese dopo le stragi di Capaci e via
D’Amelio, di essere assegnato alla procura del capoluogo siciliano.
Un segnale forte in un momento in cui la mafia  aveva sferrato
l’attacco più duro al «cuore dello Stato
»,
oggi si scopre non da sola.

Dalle parole del magistrato, impegnato da anni in una battaglia non
solo giudiziaria, ma anche culturale, contro le mafie, il racconto di
quegli anni del post – stragi e l’attualità della lotta alla criminalità
organizzata, in un momento in cui la mafia  – dichiara il procuratore
capo – “si è fatta sempre più impresa criminale ed economica”.
Un inabissamento che ne ha moltiplicato la potenza e radicato la presenza
sul territorio, aumentando il rischio di infiltrazioni in tutto il Paese.
Perché è importante sottolinearlo – come ricorda Caselli – “le
mafie sono un problema nazionale”. 

Nel 1993,
subito dopo le stragi di Falcone e Borsellino lei ha chiesto di essere
trasferito da Torino a Palermo, dove
è stato procuratore antimafia fino al 1999…
 

In realtà 
l’ho chiesto nell’estate del ’92. Dopo tutta la trafila burocratica
del CSM sono stato nominato nel dicembre del ’92 e ho preso possesso
nel gennaio del ’93… 

…cosa
si è trovato attorno in quel momento e che aria si respirava?
 

C’era una
Procura in forte difficoltà perché certi veleni che avevano complicato
il lavoro degli uffici giudiziari palermitani, e della Procura in particolare,
si respiravano ancora, però siamo riusciti, tutti insieme a fare squadra
e guardare avanti buttando alle spalle le lacerazioni: abbiamo così
contribuito, con le forze dell’ordine e le istituzioni che in quel momento
si erano magicamente unite, e con il sostegno dell’opinione pubblica,
a risollevare le sorti del nostro Paese che, dopo le stragi del ’92,
erano a rischio perché lo stavano trasformando in un “NarcoStato”,
uno “Stato-mafia” e, come ha detto Caponnetto, sarebbe stata
“la fine di tutto” perché non ci sarebbe stato più niente da fare.
Invece, noi della Procura di Palermo insieme a tantissimi altri – sia
chiaro, in un circuito che comprendeva molti fattori – abbiamo contribuito
a far risollevare la testa alla giustizia e risalire la china e se oggi,
pur se con tante difficoltà e incertezze, possiamo parlare di questi
problemi affrontando anche il versante torbido di eventuali mandanti
esterni, eventuali trattative, eventuali deviazioni degli appari dello
Stato, è perché non è finito tutto allora ma, per fortuna, tutto
è ricominciato. 

Nel 1994,
come è emerso dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, lei avrebbe
dovuto essere la vittima di un attentato anonimo con un missile terra-aria
proveniente dalla Jugoslavia. Poi, nel 1995, di un altro con delle bombe
nascoste nella sua macchina. In sostanza, la stessa strategia usata
per via D’Amelio e Capaci. Oggi, la mafia usa ancora lo stesso tipo
d’offesa o ha cambiato strategia?
 

A me è 
andata bene e sono sinceramente grato gli uomini addetti alla mia protezione
perché mi hanno salvato. Abbiamo trovato tanti missili negli arsenali
degli uomini di Cosa Nostra di quegli anni ma non tutti sono stati recuperati
e uno di questi doveva essere utilizzato da Spatuzza contro di me. Qualcosa
del genere avevamo avvertito già allora anche se non con questa precisione.
Io vivevo, in una situazione iperblindata, davanti allo Stadio della
Favorita; ad un certo punto vengo trasferito, dalla sera alla mattina,
all’aeroporto militare di Bocca di Falco proprio perché c’era nell’aria
la possibilità di qualcosa, forse un attentato dal Monte Pellegrino,
e poteva essere il missile di cui parlava Spatuzza. L’autobomba invece
fu oggetto di indagine della Procura di Caltanissetta – quando si tratta
di un attentato ad un magistrato se ne deve occupare una Procura diversa
da quella in cui lui lavora. Oggi la mafia minaccia ancora i magistrati
in prima linea. Lari e Gozzo hanno recentemente ricordato che stanno
facendo collezione dei proiettili che gli inviano. Anche le minacce
di attentato contro Ingroia sono state oggetto di cronaca: quindi, la
mafia non ha certo rinunciato alla violenza. Rispetto al 1992, oggi
la differenza è che, colpendo il cuore dello Stato attraverso la magistratura,
la mafia abbia dovuto subire a sua volta dei colpi durissimi, quindi,
la loro nuova strategia è stata quella di inabissarsi e farsi notare
un po’ di meno, senza più stragi e omicidi eccellenti, per poter diventare
sempre di più una mafia degli affari che è anche una mafia impresa
criminale ed economica: allora cerca di uscire dai riflettori sotto
i quali invece gli omicidi eccellenti e l’attacco al cuore dello Stato
inevitabilmente la proietta. 

Lei ha parlato
di attacco al «cuore dello Stato». Prima di giungere a Palermo, in
Corte d’Assise di Torino si occupava anche di terrorismo politico; a
Palermo si è occupato di terrorismo mafioso. Ci sono differenze,
oppure, si possono trovare delle analogia tra le due realtà?
 

Devo fare una
premessa: della strage di Capaci non mi sono mai professionalmente occupato
perché  venne allora trasferita da Palermo a Caltanissetta essendo
vittime anche dei magistrati; poi, per via D’Amelio, con la morte di
Borsellino, procuratore aggiunto di Palermo, anche questo processo andò
a Caltanissetta quindi, di queste stragi che riguardano il terrorismo
mafioso io, come dirigente della Procura di Palermo, non mi sono mai
direttamente occupato. Di Capaci però mi sono occupato quando il primo
pentito che rivelò fatti e cose decisive su questa strage chiese proprio
di parlare con me in quanto procuratore di Palermo. Sto parlando di
Santino Di Matteo, che rivelò che ruolo avesse avuto lui a Capaci e
quello di ciascuno di coloro che erano con lui. Io ho immediatamente
trasferito questo verbale, appena finito di scriverlo, alla Procura
di Caltanissetta. Tutto quello che si sa sulla esecuzione materiale
della strage di Capaci nasce da qui e da questo verbale e che Di Matteo
ha reso a me e che ha poi pagato con la tragedia di suo figlio Giuseppe,
sequestrato per 18 mesi dalla mafia, torturato e ucciso a freddo e il
suo cadavere sciolto nell’acido: tutto perché figlio del primo pentito
di Cosa Nostra che ha osato violare il segreto dei segreti, l’attacco
al «cuore dello Stato» fatto attraverso la strage di Capaci. Le differenze
tra terrorismo politico e terrorismo mafioso sono profonde perchè si
tratta di due mondi diversi. Quelle terroristiche erano organizzazioni
criminali che si ispiravano a una sorta di fanatismo ideologico, invece
quelle mafiose sono prima di tutto organizzazioni criminali che perseguono
il fine del potere e dell’accumulazione illecita del denaro. La differenza
è abissale perché da  una parte c’erano, nel terrorismo, delle
ideologie distorte e male applicate e dall’altra, nelle organizzazioni
mafiose, soltanto potere e accumulazione di denaro attraverso l’intorbidamento
dell’economia e della politica per le necessarie alleanze. 

In questi
ultimi mesi si parla del ddl sulle intercettazioni e non solo per le
penalità che questo comporterà 
all’editoria e al giornalismo, ma anche alla giustizia. Sappiamo ad
esempio che saranno più difficili le intercettazioni ambientali.
Eppure un governo dovrebbe aumentare, piuttosto che limitare, la sicurezza
dei cittadini. Perché allora questo governo preme affinché
il decreto diventi legge?
 

Perché 
c’è una certa politica che sempre più spesso usa parole
che sono piuttosto lontane dalla verità. Per esempio, il tema della
sicurezza. Si fa un gran parlare di sicurezza, per «maggior sicurezza»
si mettono in campo sistemi che si ispirano al concetto della «tolleranza
zero» – vedi l’esercito per le strade, la flotta che respinge i migranti
nelle mani di Gheddafi, e non c’è bisogno di aggiungere altro, le ronde
e via seguitando. Tolleranza zero e, improvvisamente, quando si tratta
del baluardo vero, il muro di cemento armato a tutela della sicurezza
dei cittadini, le intercettazioni, invece di tutelare la sicurezza in
ogni modo, si danno picconate a questo muro che protegge la sicurezza.
Tra le parole e la realtà esiste dunque uno scarto, un’incoerenza quanto
meno che si spiega con la preoccupazione di coprire i vizi pubblici
e privati di pochi a scapito, anche sacrificando, la sicurezza di tutti.
Questa non è, secondo me, una buona politica. 

Da poco
è passato l’anniversario delle stragi del 1992 ma a Palermo, nella
stessa notte in cui furono esposte per la prima volta, hanno distrutto
le statue in ricordo di Falcone e Borsellino. Chi può
aver compiuto questo gesto e cosa può
aver voluto dire?
 

Io no credo
alla storia del vandalo isolato perché in una realtà come
quella palermitana queste cose accadono sempre in un contesto che esclude
che si tratti soltanto una volgare e stupida bravata. Ci sono ancora
forti “presenze” che odiano la legalità e i suoi simboli e coloro
che dovrebbero essere considerati il riscatto di Palermo e il fiore
all’occhiello del nostro Paese e non sopporta queste cose perché vuole
continuare a fare i suoi affari avendo pochi fastidi da parte di chi,
come poliziotti e magistrati, fa il suo dovere. 

Dopo il
caso Saviano sembra che gli intellettuali e gli artisti abbiano meno
paura di denunciare la mafia e i suoi complici, e che quindi anche l’arte,
dalla letteratura al cinema – con iniziative come Libero Cinema in
Libera Terra – stia dando il proprio contributo per la diffusione
di una cultura antimafia. Si può sperare in risultati positivi?
 

Ma purché,
chi si occupi di mafia, lo faccia con una certa continuità. I limiti
tradizionali della cultura antimafia sono quelli restringere l’attenzione
solo al perimetro dell’ordine pubblico, cioè occuparsi di mafia soltanto
e prevalentemente quando uccide, quando ha commesso un attentato clamoroso
e arresti importanti o un processo significativo, trascurando invece
o, addirittura, dimenticando di occuparsi di mafia quando la situazione
sembra normale: ma è proprio durante la normalità apparente che la
mafia tesse la sua trama di sporchi rapporti con pezzi della politica,
dell’economia e della finanza e fa i suoi affari crescendo come potenza
economica e, condizionando il mercato, alterando le regole della concorrenza
con questa espansione dell’economia illegale, che il problema dei problemi
oggi. È stato merito di Saviano se oggi sappiamo che i Casalesi non
sono solo degli assassini che insanguinano le strade di Scampia ma anche
una potenza economica che va oltre i confini della Campania. Bisogna
seguire l’esempio di Saviano e non parlare della mafia solo come di
un problema folkloristico ma come di un problema nazionale.

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