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Presi i killer e i fiancheggiatori per l’omicidio del boss Luca Megna

Di Domenico Policastrese (da Il Crotonese) il . Calabria



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Il suo nome circolava di bocca in bocca
già da diversi mesi; ora è scritto, nero su bianco, su un
provvedimento della magistratura. E’ Leo Russelli l’autore del
sanguinoso agguato in cui, la sera del 22 marzo 2008, venne
assassinato Luca Megna e rimasero ferite la moglie Daniela e la
figlioletta Gaia, di appena 5 anni, che ha lottato per lungo tempo
tra la vita e la morte. A quell’agguato avvenuto alla vigilia di
Pasqua nella frazione Papanice parteciparono almeno cinque persone,
allo stato ancora da identificare. Ma il commando – dicono gli
inquirenti alla luce degli elementi raccolti nei due anni trascorsi
dal delitto – era guidato sicuramente da Leo Russelli. Recita infatti
il provvedimento: “Russelli Pantaleone ha preso parte all’omicidio,
ed è colui che si è venuto a trovare davanti al veicolo di Megna
Luca, il quale, poco prima di morire, aveva cercato di investirlo;
per evitare l’impatto, Russelli si è proiettato con l’arto
inferiore destro sul cofano della Panda, riportando la lussazione del
ginocchio”.

Ma non è soltanto questo ad emergere
dagli atti dell’indagine sul delitto condotta dalla squadra Mobile
di Crotone sotto le direttive dei pubblici ministeri Pierpaolo Bruni
e Sandro Dolce. E’ stato scoperto, infatti, uno stuolo di
fiancheggiatori che hanno aiutato il boss a far perdere le sue tracce
subito dopo l’agguato: lo hanno accompagnato all’ospedale di
Castrovillari dove gli sono state prestate le prime cure per la
ferita al ginocchio; lo hanno tenuto nascosto in varie abitazioni
della città e poi hanno trovato il sistema per farlo sottoporre ad
intervento chirurgico nella clinica Villa Giose, dove, sotto falso
nome, è rimasto ricoverato addirittura per undici giorni. Quindi lo
hanno accompagnato con la moglie e i figli a Imola dove però, il 22
luglio 2008, è stato scovato dai segugi della squadra Mobile
crotonese.

Tutti elementi che hanno indotto la
Procura distrettuale di Catanzaro a chiedere l’arresto per Leo
Russelli ma anche per altre 16 persone accusate di averlo aiutato e
coperto. Il giudice delle indagini preliminari Camillo Falvo,
tuttavia, ha accolto solo in parte le richieste dell’accusa ed ha
emesso quattro ordinanze di custodia cautelare in carcere che sono
state eseguite all’alba di venerdì dagli agenti della squadra
Mobile nel corso di un’operazione denominata “Cape Fear”. La
prima riguarda appunto Russelli, accusato di omicidio e duplice
tentato omicidio aggravati dalle modalità mafiose oltre che di
detenzione e porto in luogo pubblico di armi; al boss il
provvedimento è stato notificato in carcere, così come a Roberto
Bartolotta, 46 anni, peraltro congiunto di Russelli, che risponde di
favoreggiamento aggravato dalle modalità mafiose. Stessa accusa
contestata anche ad Alfredo Monteleone, di 35 anni, e ad Antonio
Franzè, di 37 anni, entrambi crotonesi, che sono stati arrestati
venerdì mattina in città. Il giudice non ha emesso misure cautelari
nei confronti degli altri indagati ritenendo che non abbiano agito
per agevolare la cosca mafiosa di Papanice ma più che altro perché
legati da rapporti di amicizia e parentela con Russelli.

Ha emesso, invece, un provvedimento
interdittivo nei confronti del medico crotonese Salvatore Nicoscia,
di 50 anni, attualmente consigliere comunale del gruppo misto, che è
stato sospeso per due mesi dall’attività professionale. Il
sanitario è accusato di aver redatto un’impegnativa con la quale
attestava la necessità di sottoporre Russelli a intervento
chirurgico alla gamba destra. Secondo quanto accertato dagli
inquirenti Nicoscia ha redatto l’impegnativa la sera del 24 giugno
2008, mentre era in servizio alla Guardia medica all’interno
dell’ospedale di Crotone. Al suo cospetto si è presentato un’altra
delle persone indagate di favoreggiamento, Michele Covelli, che gli
ha chiesto di compilare il certificato medico a nome di un tale
Pietro Macrì, esibendo in proposito una carta d’identità falsa,
sulla quale compariva la foto di Leo Russelli. Quella sera non c’è
stata, dunque, alcuna visita medica nei confronti di un tale Macrì,
come risulta peraltro dal registro degli utenti transitati per
l’ambulatorio e pertanto l’impegnativa è da considerarsi falsa.
E ancora – annotano gli inquirenti – Nicoscia sicuramente conosceva
Russelli che abita nella stessa frazione Papanice. Con quel
certificato, insomma, ha voluto favorire il boss che ne aveva bisogno
per essere operato alla gamba. Cosa che è poi avvenuta presso la
casa di cura Villa Giose dove Russelli è rimasto ricoverato per
undici giorni, dal 7 al 18 luglio 2008, durante i quali è stato
sottoposto a intervento chirurgico dal dottor Alfonso Ussia.
“Obiettivamente, è stato soprattutto grazie a loro – afferma in
proposito il giudice Falvo – che il Russelli è riuscito a sottrarsi
agli investigatori, nel momento più critico, senza l’intervento
chirurgico eseguito dall’Ussia e prescritto dal Nicoscia, lo stesso
non sarebbe mai riuscito ad allontanarsi dalla Calabria, con una
gamba che stava per andare praticamente in cancrena”.

Nei confronti del primario di Villa
Giose tuttavia, il giudice non ha emesso provvedimenti ritenendo
contraddittori gli elementi a suo carico. Non è provato, infatti,
che Ussia fosse a conoscenza che dietro l’identità del sedicente
Pietro Macrì si nascondesse invece Leo Russelli; anzi utilizzando
l’impegnativa e la carta d’identità dell’uomo, la casa di cura
ha anche chiesto il rimborso dell’intervento al servizio sanitario.
Ad un certo punto, tuttavia, il medico aveva capito che la persona
operata non era Macrì ma un uomo che aveva bisogno di nascondersi,
come peraltro gli aveva fatto intendere Michele Covelli durante le
sue visite al boss in clinica.

Terminata la degenza Russelli ha quindi
deciso di lasciare la Calabria per andare a nascondersi ad Imola. Ad
accompagnarlo con l’auto insieme alla moglie e ai figli, dicono gli
inquirenti, sono stati Bartolotta e Franzè. Ma la sua latitanza
emiliana è durata solo pochi giorni.

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