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Il “Primo round” contro la ‘ndrangheta in Lombardia

Di Fabrizio Feo il . L'analisi

“… Avremmo
potuto arrestarne più di mille ….ma dove li mettevamo” : questo
commento raccolto da uno degli investigatori che hanno lavorato tra
Reggio e Milano alla grande operazione di una settimana fa contro il
“Crimine”, la ‘ndrangheta in versione nuovo millennio, dovrebbe
far riflettere. Non solo e non tanto perché in questo Paese – dato
per assodato che si può privare chiunque della libertà, anche un sospettato
di mafia, solo quando ci sono tutti gli elementi richiesti della legge
– bisogna fare i conti con il sovraffollamento delle carceri anche quando
ci sono gravi motivi che inducono all’applicazione di misure cautelari
.

Dovrebbe far riflettere soprattutto perché rinvia ad un passaggio
dell’intervento in conferenza stampa a Milano del Procuratore Ilda
Boccassini: la Boccassini ha chiarito – elencando alcuni dati – che
ognuno dei locali e  dei “mandamenti” di ‘ndrangheta, colpiti
al Nord, poteva contare su centinaia di affiliazioni. Ho sentito cifre
che viaggiavano dai 250 ai 500 ‘ndranghetisti per ogni “locale”
.

Un dato che in troppi hanno trascurato e che da un lato lascia immaginare
che si è chiuso solo un “primo round”: con le famiglie di
‘ndrangheta, così come sono state disegnate dalla “riforma costituzionale”
dell’era Oppedisano , con i loro complici e sodali politici
e imprenditoriali. Ma questo dato offre una dimensione del problema
che costringe a ridefinire anche la dimensione del termine infiltrazione,
soprattutto per il capitolo “economia”. Non si può tenere d’occhio
solo l’affare del momento – oggi l’Expo -, perché mentre si guarda
a quello si rischia di perdere di vista (e fortunatamente Boccassini,
Pignatone Prestipino e Gratteri non lo fanno) la complessità e la vastità
della minaccia. Proprio inchieste della Dda di Milano hanno dimostrato
che famiglie storiche come i Barbaro e i Papalia gestiscono affari di
ogni genere, purché lucrosi, attraverso uomini fidati da comodi uffici
in via Monte Napoleone, la Dda di Reggio Calabria ha rintracciato insospettati
canali finanziari tra Roma e almeno tre continenti, la Dda della Capitale
ha dimostrato che i clan, pur colpiti da arresti sequestri di beni e
perfino scioglimenti di consigli comunali (i Gallace a Nettuno, nel
Lazio), ricostruiscono le proprie fila e insieme la propria presenza
in settori economici importanti. E la guardia non può essere abbassata
nemmeno per un istante.

Tornando alla Lombardia, se i numeri sono –
come sono – quelli forniti dal Procuratore Boccassini, se la “politica”,
l’ordinamento delle ‘ndrine , sono quelli che ci descrivono passo
dopo passo le intercettazioni dell’inchiesta conclusasi con i 300
arresti del 13 luglio, allora si deve cominciare a rileggere la storia
della migrazione al nord delle famiglie criminali calabresi. Migrazione
ispirata, soprattutto nell’ultimo decennio, non da una quasi naturale
ricerca di pascoli più ricchi ma da un vero e proprio disegno strategico,
che in pochi hanno compreso. Anche nel mondo dell’informazione che
continua a non garantire, salvo rare eccezioni continuità e profondità
nell’occuparsi di questi temi.

Si segue l’evento, soprattutto arresti
o inchieste, che magari anche a nord coinvolgono nomi eccellenti, (anche
la cronaca giudiziaria ha il suo gossip, ormai!) e l’attenzione termina
nel giro di 48 ore. In attesa del caso successivo, che difficilmente
si riesce a collegare al contesto. Guai, poi, a scendere nel dettaglio
a far troppi nomi -soprattutto per l’informazione televisiva – guai
ad insistere. Guai a scavare. Dicono che lo spettatore fa confusione,
perde attenzione. Ma forse a confondere è il silenzio. 

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