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Torino e i migranti:
la città dalle molte facce

Di Gaetano Liardo il . Piemonte

La questione dei migranti è di stretta attualità nel nostro paese. Da nord a sud emergono storie di sfruttamento, marginalità, fenomeni di razzismo sempre più marcati nella società italiana. Il migrante diventa “clandestino” e il clandestino “delinquente” contro cui intervenire con la forza della repressione. Integrazione, accoglienza diventano parole vuote anche in città simbolo della cultura e dell’impegno sociale come Torino. Michele Gagliardo, animatore della formazione giovanile del Gruppo Abele e di Libera, parla dell’importanza di piccole e costanti azioni quotidiane per far nascere una vera integrazione dal basso.


Torino è una città che accoglie i migranti?

Torino è una città che ha molte facce. I migranti sono concentrati in modo particolare in alcuni quartieri. Penso sia possibile costruire quasi una mappa dei loro percorsi. Quando arrivano dai paesi di origine, o da altri paesi di migrazione, arrivano tutti in due territori molto precisi che sono Porta Palazzo e San Salvario. Dopo un periodo di stabilità precaria si spostano in altri quartieri un po’ meno caldi della città, dove però è sempre presente un numero significativo di loro concittadini. Tendenzialmente direi che la nostra è una città dove è presente luoghi di concentrazione molto elevata di persone che stanno vicine, che appartengono alla stessa nazionalità, alla stessa etnia e che vivono concentrati in questi territori.
Un raggruppamento ghettizzato. C’è un rapporto, uno scambio con la città?
Direi che, salvo alcune situazioni, c’è un rapporto di prevalenza, di riunione tra culture simili. Devo dire anche che una parte delle azioni sociali che si costruiscono rischiano un po’ di rinforzare questa chiusura, questa ghettizzazione. Perchè se il lavoro che si fa con i migranti non è un lavoro che costruisce dei legami con il resto della città, si rinforza l’isolamento. Queste persone comunque si integrano, è importante capire attraverso quali azioni e quali strumenti lo fanno. Lo stare con gente della propria etnia, chiusi nelle proprie relazioni più di vicinato, più di intimità, è un modo per essere integrati e per vivere quotidianamente e superare le difficoltà di una vita spesso molto difficile. Certamente non è l’integrazione che alcuni di noi hanno in mente, cioè l’integrazione che vede queste persone pienamente dentro le dinamiche della città. In questo momento non accade. Non solo per loro, ma sicuramente in modo particolare per loro. Torino è una città nella quale ci sono molti campi per Rom, è una città continuamente a rischio di sgomberi. Parliamo di parecchie centinaia di persone che vivono in periferia, privi di ogni diritto fondamentale, l’acqua per lavarsi e per bere, i servizi igienici, pessime condizioni sanitarie, di notte i topi mordono le persone nelle baracche. Parliamo di una città che è stata capitale della cultura, per molti anni simbolo dell’impegno sociale. Su questo tema delle persone che in modo particolare rappresentano visivamente gli ultimi, Torino è una città che deve fare ancora moltissimo.
La questione dei migranti viene affrontata come emergenza. L’esperienza maturata con il Gruppo Abele è quella di innestarvi in situazioni di emergenza cercando di disinnescarle. Pensi che a Torino, come nel resto d’Italia, i migranti possano smettere di essere considerati “emergenza” e la questione finalmente possa essere affrontata con criteri più razionali?

Il punto importante è l’approccio con cui si avvicina questa esperienza. L’Italia è un paese di migrazione, lo è sempre stato. Prima internamente, poi gli italiani all’estero, adesso le persone che arrivano nel nostro paese. In fondo è sempre stata la storia dell’uomo. Se la si affronta da questo punto di vista, cioè che la ricchezza di un popolo e di un paese è data dalla sua capacità di aprirsi, di costruire sull’eterogeneità la sua cultura, e quindi la sua forza di pensiero, di sviluppo e anche di impresa, di economia, allora ecco che oggi l’emergenza si può gradatamente trasformare in un processo che, nell’arco di alcuni anni, può costruire delle condizioni diverse. A me sembra che l’impostazione culturale che si assume, e che i dispositivi legislativi trasmettono, non è quella di cui dicevo ora, ma è sempre più concentrata su un’idea di cultura di “razza”, intesa come “sangue”. Una razza che non esiste, non è mai esistita e non esisterà mai, che serve soltanto a costruire un’appartenenza basata su questioni non vere per l’uomo. La razza pura non esiste, non esistono le radici se non in origini multiculturali. Questi sono i presupposti cruciali delle possibilità di sviluppo dei nostri contesti sociali. Le paure che i dispositivi legislativi stanno promuovendo attraverso la cultura della minaccia del diverso che viene da altri paesi sono utili a generare situazioni di emergenza per poi validare questo modello da un punto di vista più complessivo. Queste paure, legate ad una bassissima coesione sociale e ad un bassissimo sviluppo delle libertà personali, sono i tre elementi fondamentali per ostacolare lo sviluppo di un territorio. In questo senso mi sembra che si debbano trovare dei dispositivi che superino la situazione dell’emergenza e che sappiano, attraverso questi tre fattori, smontare le paure, ricostruire coesione sociale, restituire capacitazione e libertà personale. Ricostruire, quindi, tessuti territoriali più forti ed economie più forti.
In Italia tuttavia abbiamo una maggioranza che sta attuando una politica del tutto diversa: fomentare le paure come nelle ultime elezioni politiche con la caccia ai rumeni, i respingimenti, rifugiati imprigionati in Libia in prigioni costruite con fondi italiani. Pensi che dal basso ci sia la possibilità di avere una cultura diversa capace di fare cambiare rotta al nostro paese?

Il nostro governo è forte con i deboli e debole con i forti, e questa scelta la paghiamo continuamente. Questa è una modalità che distrugge, che non mette l’uomo al centro della politica, cosa che invece dovrebbe essere. Penso che si debba ripartire dal basso, da piccole esperienze. Perchè sono queste alla nostra portata. Non ci deve mancare la forza di dichiarare ciò che non va, di denunciarlo, di fare delle proposte di carattere politico, ma solo se sono il risultato di piccole esperienze. Piccole nel senso che sono legate al contesto delle dimensioni delle nostre organizzazioni, che non sono enormi ma che hanno tutta una rete locale. Pensiamo alla rete di Libera in tutto il territorio nazionale. Un’associazione di questo genere può fare un lavoro molto serio, molto attento, se si pone come punto di riferimento un territorio molto ristretto, che può gestire, del quale si può occupare, e dove può costruire delle azioni significative. L’importante è che si facciano con continuità, altrimenti rischiano di diventare l’altra faccia dell’emergenza, cioè la straordinarietà, ovvero quella dimensione dello sperimentare che non diventa mai quotidianità. Penso che sia possibile nella misura in cui noi trasformiamo, dimensionando con attenzione dentro territori, precise azioni quotidiane.

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