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Insospettabili favoreggiatori di Cosa Nostra marsalese

Di Rino Giacalone il . Sicilia

Il blitz contro gli ultimi dei favoreggiaotri arrestati. Lo chiamavano il «coniglio» oppure «u zu Ciccio», avevano paura di essere intercettati e per questo cercavano di non tradirsi quando si parlavano tra di loro, e così se “u zu Ciccio”, non altro che l’allora ergastolano ricercato Francesco De Vita, “capo decina” della «famiglia» mafiosa di Marsala, arrestato dai Carabinieri lo scorso 2 dicembre dopo nove anni di latitanza, decideva all’improvviso di cambiare «covo» anche all’oscuro di chi si occupava nel frattempo dei suoi bisogni, ecco che la cosa metteva anche una certa paura e apprensione. Gli investigatori con le intercettazioni  un giorno hanno potuto ascoltare una sbigottita Tiziana Parrinello parlare al telefono con Tommaso Platano per dirgli che «il coniglio è scappato». Ma non era fuggito via, aveva trovato un altro covo.
De Vita era protetto da una rete di insospettabili. Impiegati, autisti di scuolabus, assistenti scolastici, commercianti, gestori di locali, tutti finiti nella rete tesa, con il coordinamento della Dda di Palermo, dai Carabinieri (Comando provinciale e Compagnia di Castelvetrano) e dalla Polizia (Squadra Mobile di Trapani e Commissariato di Marsala): gli investigatori hanno delineato l’esistenza di una organizzata rete di fiancheggiatori, donne e uomini a disposizione di De Vita che non era un mafioso qualsiasi, ma era pronto a diventare il nuovo capo della mafia marsalese.
Intercettazioni decisive come decisive sono state anche le rivelazioni di uno della «combriccola», Tommaso Platano dopo il suo arresto avvenuto l’anno scorso, il 27 agosto, ad opera della Polizia, in flagranza per coltivazione di droga, che ha presto ammesso di essersi preso «cura» del latitante allora ricercato. Lui gli aveva trovato un rifugio sicuro a casa di amici, martino Gandolfo e Tiziana Parrinello, erano loro a chiamare il De Vita, appunto «il coniglio» o «zu Ciccio», lì De Vita incontrava spesso sua moglie. Un ruolo è emerso anche da parte di Vincenzo De Vita, uno dei figli di Francesco, lui a Platano diede una ricompensa in denaro per i favori resi al genitore. E così allettato dal denaro, Platano si è occupato degli spostamenti del De Vita, circostanza questa che ha permesso, dopo la sua confessione, di scoprire il luogo nel quale il latitante svolgeva i suoi summit, quasi sempre in una specie di garage, magazzino in contrada Fiumara Sant’Onofrio. In un’altra circostanza, ancora Platano, con suo cognato, Vincenzo Apelle, che secondo gli investigatori era consapevole di ogni cosa, aveva accompagnato De Vita in un immobile vicino casa sua, a incontrare altri due degli odierni arrestati, Fabio Licari, titolare del chiosco bar vicino l’ospedale, e Davide La Mantia, titolare di una officina a Paolini. 
Mafioso e guardiaspalle. Il complice di maggiore fiducia di Francesco De Vita sarebbe stato Angelo Aiello, questo gli investigatori di Polizia e Carabinieri lo deducono dal fatto di avere appurato, dicono, che era quello trovato più stabilmente al suo fianco, non solo per le cose riferite da Tommaso Platano, ma anche per quanto emerso nei periodi vicini infine alla cattura del latitante, come hanno documentato in fasi diverse dapprima la Polizia e da ultimo i Carabinieri che avevano messo su una squadra, che faceva riferimento al comando di Castelvetrano, proprio per cercare il latitante De Vita. Riuscendo a fare «bingo» nel pomeriggio del 2 dicembre trovandolo nella villetta marsalese di Ventrischi. Gli accertamenti già svolti dalla Squadra Mobile individuavano Aiello come una sorta di guardiaspalle, uno dell’«entourage», addetto alla tutela del latitante. I Carabinieri, in occasione della cattura del latitante, hanno appurato come Aiello svolgeva le mansioni di autista della moglie del De Vita. Quando il 2 dicembre 2009 scattò il blitz dei carabinieri nella villetta di contrada Ventrischi dove in una dependance abitava il latitante Francesco De Vita, agirono a colpo sicuro, perchè da quel cancello che già tenevano sotto controllo, avevano visto uscire su di un’auto la moglie del latitante che già da qualche giorno mancava da casa sua. Era il segnale che il latitante si trovava lì dentro, ma i carabinieri non perdettero d’occhio anche chi era al volante di quell’auto, da questi riuscirono a completare il puzzle dei favoreggiatori adesso arrestati. Chi guidava quell’automobile era  Angelo Aiello. Il «postino», guardiaspalle, factotum di Francesco De Vita. Come ultimo anello di collegamento tra il latitante e il mondo esterno, ci sarebbe stato Domenico Accardi, zio paterno di Sara Accardi, a sua volta fidanzata con Emanuele De Vita, altro figlio del latitante.
Accompagnavano la moglie del boss latitante ad incontrare il marito, oppure ancora facevano scorrere tra le mani dei soggetti giusti e destinatari, i «pizzini» di De Vita. Aiello e Platano. Mentre di Vincenzo Fabio Licari aveva parlato il pentito Mariano Concetto, l’ex vigile urbano di Marsala che per conto di Matteo Messina Denaro avrebbe dovuto rubare dal museo di Mazara la statua in bronzo del Satiro. Concetto fece il nome di Licari, dicendo che era «un uomo di fiducia» di un altro mafioso, anche lui arrestato dopo una lunga latitanza, Andrea Manciaracina, capo della cosca di Mazara, il soggetto che senza problemi, giovanissimo, sul finire degli anni ’80 potè parlare in modo indisturbato a quattr’occhi con l’allora ministro degli Esteri Andreotti, in visita a Mazara, nel chiuso di una stanza di albergo, il giovane Andrea era libero allora, ma era noto essere il figlio di un pericoloso mafioso e sorvegliato speciale. Quando Andrea Manciaracina si diede alla latitanza, Licari si sarebbe preso cura di lui, allo stesso modo di altri latitanti dell’epoca, Giovanni Indelicato, Davide Riserbato, Natale Bonafede, i fratelli Giacomo e Tommaso Amato. Insomma quelli arrestati la notte scorsa da Polizia e Carabinieri sarebbe una preparata squadra di «assistenza latitanti».
E Marsala avrebbe buoni nascondigli a disposizione della mafia, considerato che nell’entroterra marsalese furono catturati gli Amato, o ancora Manciaracina e Bonafede. O ancora luoghi perfetti per tenere riunioni di mafia, come quello che gli investigatori sarebbero in parte riuscito a seguire il 24 maggio del 2009, in contrada Cardilla, in un luogo dove De Vita ebbe modo di incontrare alcuni dei suoi complici. Quel giorno De Vita avrebbe cercato di pianificare la sua scalata a Cosa Nostra marsalese, dopo gli arresti che erano avvenuti nell’ultimo periodo dei capi storici: Messina Denaro l’aveva scritto in un «pizzino» diretto a Provenzano che a Marsala non c’erano più uomini d’onore a disposizione e che «presto avrebbero portato via pure le sedie dove i boss erano seduti». Una situazione di vacatio che aveva portato De Vita a pensare di farsi avanti. Una corsa fermata dalle indagini che hanno scompaginato a più riprese la «famiglia». Il luogo del summit una vecchia casa in contrada Cardilla 345, di proprietà di un ignaro  Giuseppe Capizzo, 64 anni, nonno di Licari.
Prima degli odierni arrestati, contestualmente all’arresto di De Vita da parte dei Carabinieri, il 2 dicembre del 2009, altri favoreggiatori erano stati fermati, due coppie di coniugi che avevano messo a disposizione quello che fu però l’ultimo «covo» del latitante, una dependance dentro una villetta di contrada Verdischi, periferia marsalese. In manette finirono allora i coniugi Nicola Toro e Lucia Ventimiglia e Matteo Ventimiglia e Carmela Impiccichè. 
Le intercettazioni tradiscono una tresca extraconiugale. Tommaso Platano arrestato l’anno scorso per dorga  non è rimasto molto tempo in silenzio, presto ha detto ai poliziotti ciò che sapeva del latitante Francesco De Vita, del quale si era preso cura per alcune settimane. A inguaiarlo la conoscenza con Vincenzo
, uno dei figli del ricercato, e dunque il «non potere dire di no» ad una precisa richiesta. «Conosco De Vita Vincenzo che ho incontrato tempo addietro, e sempre casualmente presso un bar sito a Marsala lungo viale Gramsci….con tale soggetto fino a qualche tempo fa non vi era stato alcun tipo di rapporto anche perché ero a conoscenza del padre latitante, ma Vincenzo De Vita essendo venuto a conoscenza delle difficoltà economiche nelle quali versavo mi propose di dare alloggio per un periodo di tempo, previo pagamento di una somma di denaro,  al padre….dopo avere riflettuto per qualche giorno, ed avendone parlato con mia moglie, la quale si è sempre dichiarata contraria, diedi il mio consenso, ci siamo dati appuntamento una settimana dopo alle 22,30 in via Salemi, vicino al nuovo ospedale, sulla mia auto salì una persona avente pochi capelli di colore bianchi, alto 1 metro e 70, con carnagione scura con due borsoni».
Il racconto di Platano non è stato sempre lo stesso, in un primo momento disse di avere portato il latitante a casa sua, poi ha cambiato versione e indicato la casa di due suoi conoscenti, i coniugi Martino Gandolfo e Tiziana Parrinello, quest’ultima si sarebbe presa direttamente cura del latitante. «Tutto questo per 40, 45 giorni». Vita ritirata quella del latitante, qualche passeggiata in cortile, si cucinava da se. Ospitalità che fu ricambiata con la consegna di mille euro. Secondo il racconto di Platano, solo la donna, sua collega sapeva di dare ospitalità ad un latitante. Ignaro il marito, fuori dalle indagini.
Una tresca c’era tra Platano e la Parrinello e lei però aveva timore a tradirsi col De Vita. E così quando Tommaso andava a trovarla a casa, lei lo invitava a giustificare in qualche modo la sua presenza: «Ci parli con lo “zu Ciccio” ?… perchè quello poi ti vede arrivare e dice che vuole». Così come la presenza di De Vita serviva alla donna a giustificare la presenza in casa sua di Tommaso Platano. «C’era mia sucoera, ti ha visto?» . «Non ti spaventare..sono venuto dieci  minuti per parlare con u zu Ciccio … non posso venire?..oh vita mia…tu ti vuoi fare a me..non è che parli con u zu Ciccio».  Quel Cristo davanti il covo. C’era una grande e bella statua di Cristo con le braccia aperte, posta all’ingresso della villa di contrada Verdischi che il 2 dicembre 2009 si scoprì essere il nascondiglio del latitante Francesco De Vita che lì fu arrestato dai carabinieri. Ancora una volta i temi della religiosità che si incrociano con quelli della criminalità, mafiosa. Come è possibile, ci si chiede spesso, conciliare il «rispetto» e l’esercizio della «fede» religiosa (in passato ci sono stati i casi di boss mafiosi che sono stati trovati con la bibbia sul comodino o che nei «pizzini» mandavano i saluti ai loro complici e accoliti scambiandosi benedizioni in nome di questo o quel santo e augurandosi protezioni divine) con l’azione criminale spesso di morte? Quando De Vita fu arrestato aveva un «bottino» tra le mani, 50 mila euro, tra assegni per 35 mila euro e contanti, per 15 mila euro. Quel denaro era la prova che De Vita fu trovato nel pieno esercizio dell’azione criminale. De Vita è ritenuto essere un esecutore dentro Cosa Nostra ed una sorta di tutore dell’ordine mafioso, dedicandosi al pizzo e al racket, «sue specialità». Il luogo dove De Vita fu trovato dista una decina di chilometri dalla casa della famiglia De Vita, ma la moglie quando lo andava a trovare compiva un tragitto talvolta lungo 100 chilometri, protetta nei suoi spostamenti da tante sentinelle sparse nel teeritorio, tra cui c’erano gli arrestati della scorsa notte. 

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