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Di Roberta Mani e Roberto Rossi* (da Calabria Ora) il . Calabria

Ionadi, questa volta gli hanno detto
pure dove sarà seppellito. «Smettila coi Soriano, ché ti buttiamo
due fucilate e ti gettiamo nel cimitero». Pietro Comito,
caposervizio della redazione di Vibo Valentia di Calabria Ora, ci ha
raccontato che quando ha ricevuto la telefonata, aveva appena
accompagnato la sua famiglia al mare. Era di corta Pietro ieri
mattina e nonostante questo era al lavoro. Appena ritornato in città,
in strada a fare il giro di cronaca, come sempre. Pietro come altri
diciassette. Perché da quando abbiamo cominciato a occuparci di
cronisti minacciati in Calabria, sono già diciotto i colleghi nel
mirino. Due, nella manciata di giorni che ci separano dall’uscita
di Avamposto. Due settimane fa la telefonata è arrivata a Giovanni
Verduci, collega del Quotidiano a Siderno. Numeri impressionanti che
confermano il primato negativo della Calabria nei tentativi di
imbavagliare la stampa attraverso le minacce di morte. In tutta
Italia nell’ultimo anno si contano una trentina di casi, dieci solo
in Calabria. Una proporzione che non ha bisogno di commenti. Nel
vibonese poi, negli ultimi tre anni, sono saltate in aria due
macchine, sono arrivate due buste con pallottole e ora l’ultima
telefonata.

Diciotto minacce di morte in due anni e
mezzo sono un dato e i dati vanno interpretati. Da una parte una
delle mafie più potenti del mondo, abituata e coccolata da un
silenzio che per decenni, sia sul piano nazionale che su quello
locale, l’ha fatta crescere fino a questo punto. Dall’altra parte
un gruppo di cronisti appassionati e mossi dalla voglia di dimostrare
che in Calabria si può fare informazione, e si può fare bene.
Perché è questo il vero dato di novità. Da quindici anni a questa
parte il giornalismo in Calabria si fa e si fa bene. Due nuovi
giornali si sono attestati come autorevoli narratori della difficile
realtà calabrese, vincendo una scommessa che sembrava impossibile,
dato l’asfittico mercato pubblicitario in questa terra. Se si fa
buona informazione in Calabria, lo si deve soprattutto alle persone.
A quelli che come Pietro in un giorno di vacanza lasciano la famiglia
al mare e vanno a cercare notizie. A quelli che vanno avanti con
poche tutele e con i pochissimi spiccioli che questo lavoro mette
loro in tasca.

Naturalmente, a parte Il Fatto
Quotidiano, di tutto ciò nemmeno una riga sulle testate nazionali.
L’informazione dei grandi numeri non vuole capire. Non vuole capire
i rischi, non vuole capire che in questo momento in Calabria le cose
stanno cambiando, che una nuova generazione di magistrati sta
sferrando duri colpi agli uomini della ‘ndrangheta. Non vuole
capire che l’informazione ha dato una luce nuova a questa terra,
raccontandola così come andrebbe fatto in ogni parte d’Italia. Non
vuole capire che da questi avamposti può svilupparsi in tutta la
società un vero e profondo sentimento di ribellione contro il
malaffare. Ed è proprio questo che non va giù ai criminali,
politici e mafiosi. Proprio questo quello che annebbia la ragione di
uomini pericolosi. Le nuove leve della ‘ndrangheta. I giovani che
prendono il posto dei vecchi boss, maestri nella gestione del
silenzio, nell’evitare di fare troppo rumore per crescere
sottotraccia. Violenti, assetati di denaro, meno disposti ad
accettare che si faccia luce sulle loro azioni e connivenze. E per
questo più suscettibili e disponibili alla rappresaglia omicida.

Speriamo che la Calabria non diventi
mai il carnaio in cui, in passato, Cosa Nostra ha trasformato la
Sicilia. Ci hanno detto molti colleghi e molti magistrati. Speriamo
che non si ripeta quell’esperienza. Ché in quel carnaio, nel
volgere di un trentennio, sono stati seppelliti otto giornalisti.

*Autori di AVAMPOSTO, nella Calabria
dei giornalisti infami

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