Le mani gelesi sulla morte di Vincenzo Napolitano
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Era il 23 Maggio del 1992, mentre le tv
di gran parte del paese erano sintonizzate sui notiziari che, in
maniera frenetica, descrivevano l’attentato subito dal magistrato
palermitano, Giovanni Falcone, a Riesi un vero protagonista della
locale amministrazione veniva ucciso.
A cadere fu Vincenzo Napolitano, già
assessore ai lavori pubblici e sindaco del centro nisseno fino a sei
mesi prima di trovare la morte.
La vittima era uno che contava, un
notabile della locale Democrazia Cristiana.
A diciotto anni dal fatto, gli
inquirenti ritengono di aver dato una definitiva soluzione al caso.
Ad uccidere Napolitano, infatti,
sarebbero stati due baby-killer gelesi, Nunzio Cascino e Francesco
Vella, coordinati dall’attuale collaboratore di giustizia, Crocifisso
Smorta, dietro il necessario placet dei fratelli Davide, Daniele ed
Alessandro Emmanuello.
La richiesta, però, sarebbe pervenuta
direttamente da Riesi: a chiamare, infatti, sarebbero stati Pino e
Vincenzo Cammarata, indiscussi signori della locale cosa nostra.
L’ex primo cittadino doveva morire
perché accumulava, solo per sé, i proventi delle mazzette versate
dagli imprenditori impegnati in diversi lavori pubblici, appoggiando
i “ribelli” guidati dai fratelli Salvatore e Calogero Riggio,
legati alla stidda gelese ed agrigentina.
A Riesi, in quel periodo, per lavorare
si doveva passare dalle famiglie del posto: il 10% dell’intero
importo dei lavori spettava al sindaco e ai gruppi della criminalità
organizzata.
La colpa di Napolitano, però, sarebbe
stata l’eccessiva attitudine ai profitti generati dal “settore”.
Il 10% si trasformava nel 3% per cosa
nostra, il resto veniva trattenuto alla fonte dall’esponente dello
scudo crociato: troppa autonomia, a quanto pare, doveva essere
punita.
Il gruppo degli Emmanuello sarebbe
stato contattato per il tramite di Salvatore Fiandaca, inviato dai
Cammarata in terra ligure, ove incontrò i fratelli gelesi, da tempo
presenti a Genova.
Un coordinamento destinato a
distruggere le fonti di profitto gestite dai Riggio, e dunque della
stidda.
A quanto emerge dalle indagini,
Vincenzo Napolitano avrebbe avuto rapporti con diversi imprenditori
interessati ad operare nella zona, fra questi Andrea e Pietro Di
Vincenzo, gestori di un grande gruppo economico, ancora oggi sotto la
luce dei riflettori accesa dagli inquirenti nisseni.
Una parte dei guadagni assorbiti dal
politico riesino, inoltre, sarebbero stati dirottati verso la “causa”
dei latitanti Carlo Marchese e Francesco Annaloro, nel mirino dei
fratelli Cammarata poiché luogotenenti di Salvatore e Calogero
Riggio.
Una storia di mafia, politica,
estorsioni, mazzette e morte: dopo diciotto anni, gli inquirenti
ritengono di averla decifrata fino in profondità.
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