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Avamposto Calabria

Di Norma Ferrara il . Calabria

Un proiettile calibro 12 che arriva in
redazione, un segnale inequivocabile in Calabria, che segna un
confine fra il tuo lavoro e la tua vita. A raccontare questa ed altre
storie “Avamposto, nella
Calabria dei giornalisti infami’
, un libro che
raccoglie sedici storie di giornalisti minacciati dalla ‘ndrangheta.
Non sono eroi, né temerari, sono persone comuni, giornalisti
testardi – spesso precari – che si ostinano a fare solo il
proprio lavoro. Si chiamano Michele
Inserra, Giuseppe Baldessarro, Filippo Cutrupi, Antonino Monteleone,
Francesco Mobilio, Alessandro Bozzo, Fabio Pistoia, Agostino Pantano,
Agostino D’Urso, Leonardo Rizzo, Giuseppe Baglivo, Antonio Anastasi,
Lino Fresca, i cronisti nel mirino. Vite blindate, violate, quelle dei giornalisti
minacciati, e delle loro famiglie. Tutto intorno
l’aria si fa pesante, e da vittima, talvolta diventi anche colpevole.
La tua colpa è quella di essere “’mpamu”, sbirro, così racconta
la figlia di uno dei giornalisti minacciati. L’ha saputo a scuola, perchè così i compagni erano soliti chiamare il padre – giornalista.

I due autori di “Avamposto” i giornalisti Roberta Mani e Roberto
Rossi, descrivono una realtà che da lontano – come di chiara la
Mani – “non pensavamo fosse così pesante”. “Numeri
incredibili consegnano alla Calabria il primato negativo del bavaglio
a forma di pistola – dichiarano gli autori -. “Una Calabria così
vicina – commenta la  Mani – eppure così lontana da noi, dal
quotidiano, da quello che nel resto del Paese si riesce a sapere”. Diversi gli episodi, le inchieste, gli articoli, i fatti narrati dai
giornalisti, spesso legate ad equilibri delicati dell’ala militare
sul territorio, altre legate agli affari delle ‘ndrine, altri ancora
collegati al livello politico delle rappresentanze locali ed
elettorali. Ad accomunarli però e’ la sindrome della trasgressione
di una regola non scritta, ma nota a tutti: che certe cose i
giornalisti devono fingere di non vederle e che non siano notizie di
interesse pubblico. Di questo attacco al sistema democratico,
all’articolo 21 della Costituzione, alla libertà d
‘impresa e alla libera espressione del voto, abbiamo parlato con i due giornalisti “inviati” in
quello che hanno chiamato l’”Avamposto”, perchè – come
dichiarano “è metafora, nemmeno troppo immaginaria, della
guerra di posizione. Con alcuni giornalisti, alcuni magistrati,
alcuni politici, poca società civile a mantenere alta la guardia
attorno alle poche isolate torrette di legalità”.

Un giornalista siciliano e una collega milanese, autori del primo libro che racconta
dell’informazione “a rischio” in Calabria. Perché avete scelto questa terra?

Ci siamo ritrovati in Calabria sulla
scia di un dato sconcertante. Dall’inizio dell’anno più otto
giornalisti sono stati minacciati dalle mafie. Quando abbiamo redatto
il rapporto 2010 sui cronisti minacciati nell’ultimo anno, quello per
l’0sservatorio “Ossigeno” promosso da Fnsi e Ordine dei
giornalisti, abbiamo constatato che era molto alto il numero dei
condizionamenti e delle intimidazioni nei confronti dei giornalisti.
Così ci siamo recati in Calabria con l’obiettivo di realizzare un
documentario, poi ci siamo resi conto che queste storie, avevano
dietro un contesto complesso ma estremamente importante, e che
andavano raccontate in un libro. Abbiamo scelto di farlo, dunque, non
solo per mettere insieme le loro storie, ma per approfondire, per
spiegare, i contesti in cui tutto questo si è verificato.

Avamposto è anche un affresco della
Calabria degli ultimi anni. Come lavora il mondo dell’informazione in questa terra?

La prima cosa che scopri non appena hai
messo piede in Calabria, è che da lontano non hai la dimensione
profonda di quello che accade. Io sono un giornalista catanese,
conosco bene la realtà siciliana, Roberta Mani è una giornalista
del nord, ma lo stupore di scoprire una realtà cosi dura e
difficile, è stata simile. La situazione in cui lavorano i
colleghi calabresi è molto calda. Molto fisica, le mafie li, le
senti sulla pelle. Mentre in altre regioni, parimenti soffocate dal
fenomeno mafioso, spesso le intimidazioni arrivano spesso sotto forma
di querele, di segnali e minacce, in Calabria i gesti sono ancora più
espliciti, ancora più vicini ai giornalisti. Questa è una realtà
che non pensavamo di trovare.

A cosa è dovuta questa differenza
che assegna alla Calabria la maglia nera fra le regioni “governate”
dalla criminalità organizzata?

La differenza è dovuta in parte al panorama
informativo che si è sviluppato negli ultimi anni in Calabria. Dopo
anni di stallo, oggi in Calabria esistono editori che si prendono
la responsabilità di far scrivere certe cose, cosa che, ad esempio,
in Sicilia non c’è. Il panorama dinamico e rinnovato ha alimentano
una naturale competizione su tutto il territorio. I tre giornali
regionali, Gazzetta del Sud, Quotidiano della Calabria, e Calabria
Ora, non si dividono aree geografiche, al contrario, da Gioia Tauro a
Cosenza, da Catanzaro a Reggio Calabria, si contendono i lettori e le notizie, facendo anche
inchiesta. In questa direzione va letto, il numero dei
giornalisti minacciati nel panorama dell’informazione calabrese. Nonostante questi dati, però, è la pervasività e la pericolosità della ‘ndrangheta a dare quella condizione di “emergenza” permanente alla situazione di pericolo in cui si vive, facendo informazione (e non solo) in Calabria.

Tanti i giornalisti raccontati nel
vostro “Avamposto”, quale caso ti ha colpito di più?

Sono tutte storie difficili, ma se
dovessi dirne uno, direi sicuramente la storia del giornalista
Michele Inserra, giornalista Quotidiano della Calabria, due intimidazioni in poco tempo. La prima giunse per
aver rivelato particolari non noti ai grandi inviati “mordi e
fuggi”, sul falso identikit del boss Nirta. Contro di lui c’è in
atto un coprifuoco personale che lo tiene a distanza da San luca,
gli hanno proprio detto “se entri a San Luca ti finisce male”. La seconda per aver raccontato di Siderno e del territorio in cui da molti anni
dominano i Commiso. I boss gli hanno spedito  un
proiettile calibro 12, lo stesso che uccise il giovane Congiusta,
ribellatosi al pagamento del pizzo a Siderno. Il calibro 12 è la firma per
gli omicidi di ‘ndrangheta, per dire sei un infame, “parli troppo”.
Poi ancora la voce tremante di Michele Albanese, mentre leggeva la lettera ricevuta da un boss della piana, di Rosarno. La
lettera che ha toni apparentemente cordiali e moderati, è arrivata dal
carcere dove il boss è rinchiuso. Michele ha solo trent’anni ma sa
benissimo che di sereno in quella lettera non c’è nulla. Quello è
uno dei peggiori avvertimenti in pieno stile mafioso. Ho ancora la
sua immagine stampata nella memoria, mentre legge, consapevole, quelle righe a noi che siamo andati ad incontrarlo per raccontare la sua storia.

Michele Inserra, Giuseppe
Baldessarro, Filippo Cutrupi, Antonino Monteleone, Francesco Mobilio,
Alessandro Bozzo, Fabio Pistoia, Agostino Pantano, Agostino D’Urso,
Leonardo Rizzo, Giuseppe Baglivo, Antonio Anastasi, Lino Fresca.
Questi i loro nomi. Sanno di essere un unico caso Calabria?

Molti di loro si conoscevano, ma non
conoscevano le loro storie. Altri invece non si conoscevano, ma anche
loro si sono impressionati di un numero cosi alto. Quello di
intrecciare le loro vicende in un unico caso nazionale che riguarda
la situazione in Calabria, è ancora, a mio avviso, un percorso da
costruire. Questo è anche uno degli obiettivi che con questo libro
si vuole raggiungere.

Qual è l’atteggiamento della
società civile calabrese, e della politica, rispetto alla realtà in cui opera l’informazione locale?

Questo è uno dei problemi calabresi.
C’è una società che in alcune aree è stata creata ad immagine e
somiglianza della ‘ndrangheta, fondandola sul bisogno e sui diritti
chiesti come favori. Finché non sarà lo Stato a riprendersi lo
spazio che è suo, ripristinando la democrazia, la ‘ndrangheta sarà
vincente. La società civile, ovviamente non tutta, stenta a
prendere coscienza di questa realtà e anche di quella in cui vive
l’informazione. Dall’altro lato la stessa politica non indica la
strada da seguire alla società civile. Un esempio su tutti è la
mancata costituzione di parte civile nell’omicidio di Gianluca
Congiusta del Comune di Siderno. Sono già costituiti parte civile,
la Provincia e la Regione. L’ avvocato del boss che è accusato
dell’omicidio del giovane che si era opposto al pizzo, ricopre anche
il ruolo di consulente comunale.

Un potere radicato che sembra
arrivare prima e meglio dello Stato nel territorio?

La’ ndrangheta comanda da 150 anni in
Calabria. E’, come dire, un potere aristocratico. I sindaci cambiano,
i poliziotti cambiano, i magistrati anche, ma loro sono sempre li, da
oltre cent’anni. Tutti sanno chi sono i Piromalli, i Molè, tutti
conoscono i loro volti. Inoltre da quando l’ingresso ne la “Santa”
ha modificato i codici ‘ndranghetistici, i boss possono sedere negli
stessi salotti di stimati professionisti, di politici, di magistrati.
Un dato che ci ha stupito ad esempio, leggendo le ordinanze di
custodia cautelare di alcune inchieste in Calabria, è che la
rivelazione di intercettazioni, la fuga di notizie, è responsabile
della morte o dell’insabbiamento di molte inchieste, in qualche modo quindi affossate negli stessi palazzi in cui nascono.

E’ un sistema che protegge gli
‘ndranghetisti anche fuori dalla Calabria?

Le ‘ndrine sul piano internazionale
hanno credibilità assoluta, perché silenziose, blindate, come dire,
sicure. Questa potenza enorme li porta a dialogare con imprese del
nord, e del resto del mondo. Ma è sulla Calabria che rimane
prioritario il controllo, diciamo “morboso e ossessivo” con il
territorio nonostante i suoi interessi enormi nel resto del mondo.

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