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Spatuzza, la resa dei conti?

Di Lorenzo Frigerio il . L'analisi

La notizia ha veramente del clamoroso e in queste ore ha già suscitato numerose polemiche, finendo sulle prime pagine dei quotidiani non solo italiani.

Gaspare Spatuzza, l’uomo d’onore di Brancaccio, il killer di Padre Pino Puglisi e del figlio di Santino Di Matteo, Giuseppe, sciolto con ferocia nell’acido, non è stato ammesso al programma di protezione previsto per i collaboratori di giustizia. La richiesta di concedere gli speciali benefici previsti dalla legge era stata avanzata da ben tre Procure della Repubblica, cioè Palermo, Firenze e Caltanissetta, eppure non è bastata ad ottenerne l’accoglimento. L’apposita commissione insediata al Viminale e presieduta dal sottosegretario all’interno Alfredo Mantovano, ha ritenuto di non concedere il regime di protezione, perché l’ex mafioso avrebbe rilasciato importanti dichiarazioni ben oltre i termini concessi dalla legge per dichiarare quanto di propria conoscenza.

Dopo l’approvazione della Legge n.45 del 2001, infatti, i tempi per la collaborazione si sono ristretti e i termini sono molto più cogenti, stando al dettato della norma: “la persona che ha manifestato la volontà di collaborare rende al procuratore della Repubblica, entro il termine di centottanta giorni dalla suddetta manifestazione di volontà, tutte le notizie in suo possesso utili alla ricostruzione dei fatti e delle circostanze sui quali è interrogato nonché degli altri fatti di maggiore gravità ed allarme sociale di cui è a conoscenza oltre che alla individuazione e alla cattura dei loro autori ed altresì le informazioni necessarie perché possa procedersi alla individuazione, al sequestro e alla confisca del denaro, dei beni e di ogni altra utilità dei quali essa stessa o, con riferimento ai dati a sua conoscenza, altri appartenenti a gruppi criminali dispongono direttamente o indirettamente”.

Arrestato nel 1997 a Palermo dalla Polizia di Stato, Gaspare Spatuzza, ha impiegato più di dieci anni per maturare la scelta di abbandonare Cosa Nostra e solo nel gennaio del 2008 ha iniziato a parlare prima con il procuratore nazionale antimafia Grasso e poi, a distanza di sei mesi, con i magistrati di Caltanissetta e di Firenze ai quali ha fornito le informazioni in suo possesso relative al biennio di fuoco. Ci riferiamo agli anni che vanno dal 1992 al 1993, quando i corleonesi avevano tentato di portare l’ultima sfida allo Stato, facendo ricorso al brutale metodo stragista, volto ad ottenere da nuovi interlocutori politici importanti risultati sul piano processuale e legislativo, tali da superare l’impatto negativo causato dalle stragi di Capaci e via D’Amelio.

Mantovano difende in queste ore la scelta della Commissione, dichiarando alla stampa che “lo  Stato non può mettere il suo timbro sulla lealtà e l’affidabilità di chi si muove a fare rivelazioni a così lunga distanza di tempo dal momento in cui ha deciso di collaborare”. Il sottosegretario minaccia anche querele contro chi osi mettere in dubbio la sua buona fede e quella degli altri componenti il comitato. Eppure siamo di fronte ad una scelta sofferta e dibattuta, qualora venisse confermata l’indiscrezione di una spaccatura tra i membri della commissione: al momento del voto, i due magistrati avrebbero dichiarato la loro propensione ad accogliere la richiesta delle tre procure, mentre i cinque, tra funzionari e ufficiali, rappresentanti delle forze dell’ordine avrebbero votato insieme a Mantovano, determinando le condizioni per il rigetto della medesima.

Le rivelazioni di Spatuzza sulle stragi del 1993, compresi i nomi di Dell’Utri e Berlusconi, quali nuovi terminali politici di Cosa Nostra, sono giunte ben oltre il termine previsto e sono state ripetute in aula dall’ex mafioso, a Torino nel mese di dicembre, durante il processo d’appello contro il senatore Dell’Utri. Fu durante un incontro avvenuto a Roma, che Giuseppe Graviano si lasciò andare ad una confidenza indicibile: “Graviano mi fece il nome di Berlusconi e mi disse che grazie a lui e al compaesano nostro ci eravamo messi il paese tra le mani. Graviano mi disse che avevamo ottenuto tutto quello e questo grazie alla serietà di quelle persone che avevano portato avanti questa storia, che non erano come quei quattro ‘crasti’ socialisti che avevano preso i voti dell’88 e ’89 e poi ci avevano fatto la guerra”.

La confessione – forse tardiva, ma pur sempre confessione in grado di innescare accertamenti e verifiche ulteriori per accedere alla verità su quei fatti – di quello che un tempo era un feroce killer al soldo dei fratelli Graviano, prima di diventare il reggente della famiglia di Brancaccio, è servita in questi ultimi mesi a riaprire il fronte delle indagini.

Spatuzza ha parlato non solo delle bombe messe da Cosa Nostra nel 1993 fuori dalla Sicilia, in continente (Roma, Firenze, Milano), ma anche delle stragi del 1992 e, in particolare di quella in via D’Amelio che costò la vita a Paolo Borsellino e a cinque degli agenti della sua scorta. La versione offerta dal killer di Puglisi smonta quella fornita dal principale teste d’accusa Vincenzo Scarantino. Grazie alla riscrittura, ancora in fieri, di quella vicenda, si profilano scenari imprevedibili e gravidi di conseguenze per i pm di Caltanissetta e Firenze che indagano sulla trattativa tra Stato e mafia, sul ruolo dei servizi segreti, fin dal fallito attentato all’Addaura ai danni di Falcone, per finire all’individuazione dei cosiddetti mandanti esterni delle stragi.

Ora, se è  vero che la ratio della normativa del 2001 è impedire le dichiarazioni a rate, è pur vero che non si può fare finta di nulla rispetto a quanto dichiarato dallo Spatuzza. I magistrati interessati sembrano confermare tale linea. Giuseppe Quattrocchi della Procura di Firenze, infatti dichiara che “Spatuzza resta attendibile”. Per il magistrato palermitano Antonino Gatto, che sostiene le ragioni dell’accusa nel processo Dell’Utri, “non cambia nulla, ormai l’abbiamo sentito, la corte deciderà”. Chi dimostra di essere più preoccupato, invece, è il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, che nel confermare l’attendibilità dello Spatuzza, si dice certo della volontà dello stesso di non fare marcia indietro, in quanto la sua collaborazione con la giustizia sarebbe corroborata anche da una scelta di carattere religioso. Lari ricorda anche la battuta caustica di Mantovano, dopo le dichiarazioni rese a Torino in dicembre dall’ex mafioso – Gaspare Spatuzza? Sembra un remake di un brutto film”– per sottolineare come la vicenda sia “la cronaca di una morte annunciata. Dopo le dichiarazioni del presidente della commissione ce la aspettavamo”.

Ora per Spatuzza restano in vigore le normali misure di protezione e si annuncia da parte dei suoi legali un ricorso al Tar.

A distanza di pochi giorni dalla sentenza d’appello nel processo al senatore Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, il segnale dato sulla vicenda Spatuzza è estremamente ambiguo, pur nel rispetto di quelle norme che, in questi anni, hanno di fatto limitato il numero e la qualità dell’apporto alla verità dei collaboratori di giustizia. Con queste norme, ribadiscano esperti e addetti ai lavori, è impensabile trovare qualcuno che collabori. E quando lo si trova, come nel caso Spatuzza, si fa di tutto per impedire che quanto viene dichiarato possa servire in aula.

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