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Servizi segreti o deviati?

Di Lorenzo Frigerio il . L'analisi

In occasione della Festa della Repubblica, oltre a dover rispondere al pressing dei giornalisti sull’imbarazzante assenza dei ministri della Lega alle celebrazioni, il presidente Napolitano è tornato sulle dichiarazioni del presidente emerito Ciampi sui possibili rischi di un colpo di stato, legato al biennio di fuoco e sangue che dal 1992 al 1993 mise in ginocchio il nostro paese. Sono infatti tornati d’attualità in questi giorni le forti preoccupazioni circa la tenuta dello Stato che Ciampi ebbe modo di mettere a verbale, durante le indagini condotte dal pm fiorentino Gabriele Chelazzi, a fronte delle bombe del 1993 e di uno scenario di allarme sociale, legato allo sciopero degli autotrasportatori, per la carenza di approvvigionamento di alimentari e carburanti. Timori che Ciampi, peraltro, aveva già espresso nell’immediatezza dei fatti, quando in Parlamento, il 28 luglio 1993, aveva denunciato “la torbida alleanza di forze che perseguono obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di criminalità comune”. 

Ulteriori dichiarazioni del procuratore nazionale antimafia Grasso e del vicepresidente del CSM Mancino hanno avvalorato nuovamente la chiave di lettura offerta dal presidente emerito e subito ne è nata una polemica politica con alcuni esponenti del centrodestra. “E’ importante che sul piano giudiziario si ricostruisca quello che ancora è possibile ricostruire anche di un passato complicato e oscuro”: così si è espresso nella festa della Repubblica il presidente, sottolineando con forza l’urgenza di approfondire le indagini in tutte le direzioni e “in modo efficace e convincente” per arrivare ad una spiegazione dei fatti – storica e processuale – che ancora oggi difetta, nonostante si siano celebrati diversi processi che hanno avuto proprio come sfondo la concitazione di quegli anni terribili. Napolitano non ha poi perso l’occasione per ribadire la necessità di garantire “la piena trasparenza dell’attività di tutti gli organi dello Stato, compresi i servizi di informazione”. 
E qui siamo alle dolenti note, come abbiamo già avuto modo di sottolineare tutte le volte che si è dovuto affrontare la spinosa questione delle strutture dell’intelligence nostrana. In moltissime delle vicende più oscure della patria storia, ritorna la presenza ambigua di uomini dei servizi segreti, con comportamenti e omissioni tali da far dubitare seriamente della loro fedeltà alle istituzioni. Va da sé – lo sottolineiamo correndo il rischio di essere perfino tautologici – che la segretezza sia una modalità d’azione prioritaria per degli organismi di spionaggio e controspionaggio che vogliano operare con efficienza, soprattutto all’interno di uno scacchiere internazionale, dove la regola è quella del “tutti contro tutti”. Non è ovviamente questo il problema. Ci chiediamo piuttosto quale possa essere il limite della opportuna segretezza per finalità di servizio e di operatività, così come “da chi” e “a chi” possa essere opposto il predetto limite. Nel caso di specie, la segretezza non può costituire assolutamente in alcun modo lo scudo dietro il quale nascondere la verità su quegli anni terribili, che, oltre ad aver causato così tante vittime e così tanto dolore per quanti sono rimasti, hanno cambiato profondamente il corso delle istituzioni e della stessa vita democratica nel nostro paese.
Siamo andati a sfogliare le pagine di un documento che, pur risalendo a quindici anni fa, conserva ancora oggi una validità eccezionale, in considerazione delle tante affermazioni pregnanti per la ricostruzione del ruolo giocato dai servizi segreti nel contesto italiano; l’immediatezza della interpretazione dei fatti – siamo infatti a tre anni da Capaci e via D’Amelio – consente una impensabile lucidità in grado di resistere all’usura del tempo.
Si tratta del primo rapporto sul sistema di informazione e sicurezza, presentato alle Camere nel 1995 dal Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato, presieduta dal diessino Massimo Brutti. Dal COPACO all’attuale COPASIR, siamo in presenza soltanto di un cambio di sigle, mentre la sostanza del controllo parlamentare resta immutata per la funzione di questo delicato organo, oggi diretto dall’ex ministro degli Esteri D’Alema. 
Nel testo, si legge, tra l’altro, che le deroghe e/o le violazioni di quelle norme, che sono valide per tutti gli apparati di polizia e di repressione del crimine, possono e debbono rientrare nell’ambito di quella opportuna discrezionalità d’azione, che si riconosce come essenziale allo servisvolgimento dei compiti istituzionali dei servizi. Occorrono però previsioni e controlli, a tutela dei valori costituzionali, che non consentano di espandere all’infinito questa discrezionalità, creando sacche di illegalità e di impunità. Superata la fase della fisiologica discrezionalità, infatti, si sconfina nel puro e semplice arbitrio, arrivando così ad un ulteriore stadio, quello della “deviazione” dai compiti previsti in capo alle strutture di intelligence, nel quadro dell’ordinamento repubblicano.
Proseguendo nell’analisi, la relazione arriva a definire il concetto di “deviazione” che si verifica in tre circostanze diverse e spesso tra loro convergenti. In prima battuta la deviazione si può definire come il perseguimento di “specifiche finalità informative od operative, in contrasto con il dovere di fedeltà alla Repubblica”. Si hanno anche casi di deviazione “quando il rapporto fiduciario dei Servizi con l’autorità di governo viene distorto e le garanzie di riservatezza sono strumentalizzate per coprire l’illegalità dei comportamenti, l’abuso nell’amministrazione e l’appropriazione privata di danaro pubblico”.
Non c’è dubbio però che sia la terza e ultima fattispecie di deviazione sia quella più aderente alle vicende di questi ultimi mesi, a fronte soprattutto degli scenari che alcuni quotidiani hanno rilanciato, a seguito delle ricorrenti fughe di notizie che il procuratore Lari ha dichiarato essere nocive allo svolgimento delle indagini in corso sulle stragi del 1992 e sul fallito attentato a Falcone, lungo le scogliere dell’Addaura nel 1989. 
Infatti, secondo il Comitato di controllo, c’è un ulteriore caso di deviazione “in tutti i casi nei quali le notizie vengono occultate e sottratte alle indagini giudiziarie, oppure quando si raccolgono e si conservano informazioni su personalità pubbliche, prescindendo da ragioni di sicurezza, o vengono usate notizie a fini discriminatori o per esercitare pressione politiche”. La conclusione della relazione, dopo la disamina dei diversi casi di deviazione possibile, non lascia alcuno spazio ad ulteriori considerazioni, tanto è lapidaria: “in tutti questi casi, la discrezionalità è esercitata ad arbitrio; non è ancorata alle finalità ed ai principi fissati dalla Costituzione; è diretta a sostenere interessi di parte o addirittura è indirizzata verso scopi illeciti”. A distanza di quindici anni, le valutazioni di allora sono di drammatica attualità e ci chiediamo quindi, se in uno scatto d’orgoglio da parte degli attuali responsabili dei servizi di sicurezza del Paese, sia arrivato finalmente il momento di aprire gli archivi e rivelare l’inconfessabile. Chi sa oggi, deve parlare.

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