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Notizie avvelenate

Di Norma Ferrara il . Interviste e persone

Tre procure, Firenze, Palermo e Caltanissetta,
a lavoro per trovare le verità sulle stragi del ’92
– ’93 e sul fallito attentato all’Addaura, nei confronti
del magistrato Giovanni Falcone. Numerosi
fascicoli sono stati riaperti per andare a
fondo alle inchieste su Capaci, via d’Amelio
e la strage di via dei Gergofili. Tasselli di un
mosaico incredibile che i magistrati stanno cercando
di ricomporre. Anche questa volta, dietro
l’angolo, puntuale come in tutte le inchieste
su Cosa nostra, lo spettro del depistaggio. Con
il collaboratore de L’Unità, Nicola Biondo,
ospite alla tre giorni sul giornalismo d’inchiesta
a Marsala, l’analisi della situazione attuale
e il ruolo dell’informazione in queste inchieste
delicate e decisive. 

Nelle ultime settimane sono apparse, su giornali
e settimanali notizie importanti sugli
sviluppi investigativi in merito all’Addaura
e alle stragi del ’92. I magistrati nisseni
hanno lanciato l’allarme su un tentativo di
depistaggio, fatto anche di notizie “parziali”
Cosa è accaduto? 
Su alcuni quotidiani e settimanali sono state
scritte notizie delicate per quel che riguarda
sviluppi investigativi sulla tentata strage
all’Addaura e le stragi del ’92. Durante il mio
intervento al dibattito su “Il patto” – qui al Festival
del giornalismo d’inchiesta – ho accennato
al fatto che alcune notizie apparivano, oggettivamente,
nella migliore delle ipotesi, non
corrispondenti al vero. Giorni dopo questa mia
opinione è stata autorevolmente confermata dai
vertici della procura nissena, che hanno parlato
con chiarezza di un «mix di notizie vere e di
notizie false, che procurano danni alle indagini
». Qualcuno ha equivocato nello scrivere certe
cose con il risultato, purtroppo, che non si è
fatto un favore ai cittadini che hanno l’esigenza
di sapere e capire. 
Quale partita sta giocando l’informazione in
questa riapertura di indagini? 
Credo che chi fa giornalismo lo debba fare con
intelligenza e rispetto della realtà che ci circonda.
Tutti noi giornalisti, abbiamo avuto almeno
una volta nella vita, una fonte che ci ha raccontato
qualcosa di particolarmente importante, e
l’abbiamo pubblicata. Ma scrivere qualcosa che
può nuocere alle indagini in corso, in questo
momento, credo che sia, una cosa infame. E’
giusto ricercare il successo ma se questo deve
significare calpestare un’esigenza più importante
e collettiva, io non ci sto. In queste indagini
il ruolo della stampa è delicatissimo perchè
propalare ipotesi spacciandole per verità investigative,
può diventare devastante. 
Questo è accaduto nelle settimane scorse? 
Chi ha raccontato delle indagini sul fallito
attentato a Falcone all’Addaura, come di uno
scontro fra servizi “buoni” e “cattivi” non è andato
a chiedere conferma di questa ipotesi investigativa
ai magistrati che a Caltanissetta su
questo stanno indagando. Si è propagandata – io
credo – una verità che assomiglia ad una “falsa
verità”. Questo ha chiamato in causa le responsabilità
del mondo dell’informazione. C’è un
limite alla caccia allo scoop, e non dobbiamo
varcarlo, altrimenti diamo fiato a chi in mala
fede, opera a tutti i livelli, dal Parlamento ad
una certa stampa, nel dire che i giornalisti devono
essere messi a tacere.

Perchè queste indagini sono vissute con particolare
attenzione anche da parte di ambienti
politici e o istituzionali?
 

Il premier, Silvio Berlusconi, qualche tempo fa
ha dichiarato, riferendosi a queste indagini, che
«i magistrati stanno facendo un golpe» . A giudicare
dalle indagini in corso, io mi chiedo chi
sono i golpisti? Chi ha utilizzato Cosa nostra
o i magistrati che stanno indagando, facendo il
proprio dovere, applicando la Costituzione, su
quella parte di Stato che ha tramato? Quello che
appare chiarissimo da queste indagini è che nel
mosaico diabolico delle stragi che i magistrati
stanno faticosamente cercando di mettere insieme,
scompaiono i volti di Provenzano, di Riina
e compaiono i volti puliti, sbarbati, di altri funzionari
dello Stato, di Ministri, di personaggi
oscuri. In questi giorni si è parlato a lungo dei
Servizi segreti, ma dobbiamo utilizzare le parole
con consapevolezza. Parlare di servizi segreti
“deviati” è una stupidaggine, i servizi segreti
non deviano, i servizi fanno uno sporco lavoro,
a cui sono delegati per Legge, e in questo Paese
sono entrati nelle pagine più nere e sanguinose
della nostra Storia. Meravigliarsi di questo è
fuori luogo. 
Quali i rischi oggi se continuano questi tentativi
di depistaggio?
 Il rischio è che da una parte ci sia la ricerca
della verità, dall’altra quella di una verità parziale.
I pericolo è quello di finire per processare
un falso colpevole. Non dimetichiamoci,
infatti, che questo è già accaduto con la vicenda
Scarantino, al processo per la strage di via
D’Amelio. Solo adesso abbiamo capito che quel
falso pentito è stato frutto di un depistaggio ad
altissimo livello: la giustizia ha processato un
mentitore addestrato a mentire da uomini dello
Stato.Questo rischio permane quando i magistrati
toccano nodi scoperti. Proprio per questo
noi giornalisti dobbiamo essere attentissimi nel
raccontare le inchieste, rinunciare alla ricerca
dello scoop a tutti i costi, evitare di farci utilizzare
e continuare a fare in maniera pulita il
nostro dovere. 
Ne “Il Patto” hai raccontato, insieme a Sigfrido
Ranucci, la storia poco nota dell’infiltrato
Luigi Ilardo, ucciso poco prima di diventare
collaboratore di giustizia, nel 1996.
Cosa avete visto, della mafia e dello Stato,
attraverso gli occhi di Ilardo?
 La storia di Luigi Ilardo è la storia incredibile
del primo e unico infiltrato per conto dello Stato
dentro Cosa nostra. Raccontando questa storia
nel libro “Il patto” scritto insieme al collega
inviato di Report, Sigfrido Ranucci – ci siamo
potuti avvalere di un punto di vista d’eccezione.
Abbiamo visto la mafia militare, quella politica,
e abbiamo visto le commistioni che ci sono
fra questo tipo di mafia e pezzi importanti della
classe dirigente di questo Paese. Non si tratta
solo di politici ma anche di grande imprenditoria,
di contatti con i servizi di sicurezza, con
magistrati. Ilardo, ad esempio, racconta già nel
febbraio del 1994 un fatto incredibile: prima
che Silvio Berlusconi decidesse pubblicamente
di entrare in politica, si è svolta una riunione
ad “altissimo” livello all’interno di Cosa nostra
siciliana cui ha partecipato un alto esponente
dell’entourage di Berlusconi. Ilardo fa inoltre
i nomi di Ligresti e Gardini dichiarando che

secondo lui – sarebbero stati in contatto direttamente
o indirettamente con la fazione di Bernardo
Provenzano. Ilardo narra, ed è il primo a
farlo, della presenza dei servizi in alcuni grandi
delitti politici, e non, in Sicilia. Al colonnello
Riccio, che è il suo referente istituzionale,
dice una frase emblematica durante i due anni
e mezzo di infiltrazione «colonnello qui c’è
puzza di servizi segreti» riferendosi ai delitti
eccellenti, da Pio la Torre a Mattarella, per poi
scendere ancora più nel particolare e parlare di
un agente dei Servizi, lui lo chiama “faccia da
mostro” (a causa del volto sfigurato). Secondo
Ilardo questo agente sarebbe stato presente al
momento della fallita strage dell’Addaura, contro
Giovanni Falcone, ma anche sul luogo del
delitto di Nino Agostino (agente di polizia ucciso
da Cosa nostra) e ad un omicidio rimasto
inspiegabile, avvenuto nel 1986, di un bambino
di appena dodici anni. Il racconto di Ilardo è
attualissimo, nonostante lo rilasci al colonnello
Michele Riccio, fra il 1994 e il 1996 ed è
una delle chiavi d’accesso che ci ha permesso di
raccontare “Il patto”. In questo racconto sono
contenuti inoltre gli aspetti più delicati di una
vicenda che vede coinvolti in un processo l’allora
generale dei Ros Mario Mori e il colonnello
Mauro Obinu. A Palermo si sta svolgendo un
processo che è rimasto blindato e che gli organi
di informazione hanno raccontato molto poco,
per nulla, o in maniera distorta. Il reato che gli
viene contestato è quello di non avere arrestato
Bernardo Provenzano, pur conoscendo, l’esatta
ubicazione di uno dei suoi covi. A informarli
era stato sempre Luigi Ilardo, l’infiltrato. Questo
processo in alcuni organi di stampa è passato
come il processo “sulla trattativa” ma non
è cosi, benchè, durante il processo, abbia deposto
anche Massimo Ciancimino, raccontando
aspetti che collegano la trattativa in corso con
la mancata cattura del boss numero uno di Cosa
nostra. 

Durante il Festival del giornalismo a Marsala
hai puntato il dito sulle grosse responsabilità
che la classe dirigente ha nei confronti
delle giovani generazioni, comunque si concludano
questi processi. Perchè? 
Perchè ci hanno rubato il futuro. Noi non siamo
come gli altri nostri coetanei europei. Noi non
abbiamo potuto scegliere. E se questo è accaduto
è perchè abbiamo avuto una classe politica
che eccetto alcuni casi, non ha avuto a cuore le
sorti di questo Paese. Siamo una generazione
che si è rassegnata al fatto che per poter vivere,
avere uno stipendio, avere un diritto, dovevamo
chiedere un favore al potente di turno.
Questa è stata una forma di diseducazione, di
inciviltà elevata a sistema. Forse, dunque, non
dovremmo aspettare le sentenze, di assoluzione
o condanna, da parte della magistratura, ma
chiederci cosa ha significato vivere in un Paese
in cui anche il giornale della Confindustria si è
reso conto che le mafie ci hanno rubato il futuro
(e pubblica con il quotidiano un libro sul
riciclaggio) che hanno comprato un Paese e l’
hanno fatto in contanti. E’ terrificante pensare
che se un Riina parlasse, nonostante non sia
in grado di parlare e scrivere in italiano, possa
raccontare pezzi della storia di questo Paese e
della classe dirigente. Questo è accaduto perchè
i mafiosi sono stati servitori di un sistema di poterei.
Il giorno in cui le mafie, in questo Paese,
smetteranno di essere “la questione democratica”
finalmente l’Italia potrà decidere del proprio
destino, scegliendo una strada o un’altra.
Noi abbiamo delegato quasi tutto ai magistrati,
perchè abbiamo una classe politica incivile, che
eccetto alcuni casi, non ha mai sentito il dovere
di far crescere questo Paese.

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