Mafia, appalti e politica
Sono pagine di una storia finalmente scritta. In tutto sono 605 pagine, sono le motivazioni della sentenza scaturita dal processo «mafia e appalti seconda fase». Il procedimento riguardava la corruzione compiuta attorno alla costruzione di alloggi in cooperativa a Villa Rosina, quartiere alla periferia di Trapani che si affaccia su quella che è la zona di nuova espansione. Terreni a destinazione agricola a ridosso della scorrimento veloce che collega l’autostrada al porto, poco alla volta cementificati dall’urbanizzazione dopo le variazioni della destinazione d’uso. Aree comprate per pochi spiccioli che subito diventano oro per chi li acquista. L’oggetto dell’indagine una corruzione con il timbro della mafia. Imputati erano il capo mafia Francesco Pace e l’ing. Leonardo Barbara, il corrotto secondo l’accusa era l’ex vice presidente della Regione e assessore regionale al Territorio Bartolo Pellegrino, leader di Nuova Sicilia, imputato anche di concorso esterno in associazione mafiosa.
La vicenda è questa: il programma costruttivo fu previsto in un’area a destinazione agricola, fu necessaria una variante per farla diventare a destinazione edilizia, provvedimento approvato dal Consiglio comunale e passato al vaglio della Regione, assessorato al Territorio che acconsentì, tutto questo secondo l’accusa una strategia fatta di corruzione. Per i giudici è confermato che la mafia aveva concordato la riscossione e assegnazione di «mazzette», per il politico, Bartolo Pellegrino, per il mafioso, Ciccio Pace, e per il tecnico, Giuseppe Todaro, un milione a testa ad ognuno di loro e per ogni appartamento, i relativi soldi sarebbero stati tratti «dai computi metrici destinati ad essere gonfiati». A raccontare i retroscena un paio di protagonisti dell’affare come l’imprenditore Nino Birrittella che ha ammesso di essere satto un mafioso e di essere stato anello di collegamento tra la cupola e gli imprenditori del trapanese. Ma a confessare non è stato solo lui. A pagina 517 delle motivazioni i giudici affrontano subito la questione della corruzione per la quale sono stati condannati Barbara («artefice» dell’operazione) e Pace mentre per Pellegrino è scattata la prescrizione. «Le dichiarazioni di Antonino Birrittella, Antonino Figuccio, Mario Buscaino, ex sindaco, Giuseppe Todaro, Vito Augugliaro e, in misura più ridotta, quelle di Vito Giacalone nonché l’esito delle intercettazioni ambientali consentono di ritenere raggiunta la prova dell’intervenuta promessa di corruttela del Pellegrino al fine di un suo positivo intervento sul Piano regolatore e sull’iter di approvazione dei programmi costruttivi». «L’assessuri è parlato» viene sentito dire da Nino Birrittella dagli investigatori che lo intercettano, mentre parla con due imprenditori Vito Tarantolo e Ferdinando Sortino. Per i giudici però non è provato il contatto tra Pellegrino e la mafia, l’incontro tra il politico e il capo mafia Francesco Pace, pur riconoscendo che se ci fu manca la prova della consapevolezza di Pellegrino di parlare con un boss. E questo ha fatto venire meno l’aggravante mafiosa, il reato di corruzione così in questa forma, semplice, grazie alla legge Cirielli, per il tempo trascorso risulta da prescrivere per l’ex parlamentare regionale. Il malcostume però c’è tutto. «Gli elementi emersi indirizzano il giudizio ad una figura di politico che di certo non si sottraeva ad oscure relazioni di stampo affaristico clientelare con il mondo imprenditoriale». Tra le ultime pagine della sentenza quelle dove si esclude la provata esistenza del concorso esterno in associazione mafiosa, i giudici annotano, deducendo dall’esame di testimonianze raccolte, che nel 1991 la mafia appoggiò elettoralmente Pellegrino ma «per la sua vicinanza con un potente uomo d’affari Giuseppe Ruggirello (deceduto a metà degli anni ’90, banchiere invischiato ma uscito indenne da una serie di indagini su contatti tra banche e mafia e su una serie di speculazioni edilizie, oggi il figlio Paolo è deputato questore dell’Mpa all’Assembela Regionale Siciliana, il genero, Vito Augugliaro, da poco scomparso è stato indagato per associazione mafiosa ndr)…non è stato chiarito se di tale prospettato patto politico-affaristico-mafioso fosse partecipe e consapevole l’odierno imputato. Né diversamente può dirsi con riguardo alle elezioni del 2001… Birrittella coinvolge la famiglia Ruggirello, affermando che i mafiosi votarono “Nuova Sicilia” non per una preferenza ideologica ma su indicazione di Bice Ruggirello (figlia di Giuseppe, sorella di paolo e vedova di Vito Augugliaro ndr) e sempre per ragioni di mero interesse economico».
Le motivazioni contengono premesse in generale dedicate al fenomeno mafioso trapanese. Il giudizio bolla come «dicerie» ciò che si va dicendo in giro sulla mafia che non c’è perchè sconfitta. Per i giudici del Tribunale di Trapani che per giudicare gli imputati coinvolti nell’«affare» Villa Rosina, hanno esaminato a fondo gli intrecci tra Cosa Nostra e la società, la mafia c’è e si è riorganzizata, «è lungi dall’ essere una mera ricostruzione letteraria, si articola in una molteplicità di raggruppamenti di persone, ciascuno dei quali dotato di una certa autonomia operativa ma tutti indissolubilmente legati; organizzazione unitaria ma formalmente costituita da più aggregati singoli». Oggi c’è una mafia che è cambiata, a cominciare dai riti di affiliazione. Non c’è più la «punciuta», «c’è semmai – scrivono i giudici – l’attribuzione di specifiche condotte indicative dell’ appartenenza alla consorteria piuttosto che quello della formale qualità di “uomo d’onore”». Resta salda l’alleanza tra le «cosche» di Paceco e Trapani, qui i capi mafia «oltre ad operare nel settore più specificamente militare della consorteria, svolgono un fondamentale ruolo di gestione e direzione occulta degli appalti pubblici. Il processo prese spunto dal ritrovamento di «pizzini» nel covo dove nel febbraio 2001 fu trovato l’allora latitante Vincenzo Virga. La Polizia trovò appunti dove si parlava di imprese e appalti, come per esempio il bigliettino dove Virga aveva annotato «tutte le imprese con Pace», colui il quale l’avrebbe presto sostituito ai vertici del mandamento mafioso. Rimanendo fino all’arresto nel novembre 2005, passando anche per le vicende delle palazzine di Villa Rosina, ma non solo, «interessandosi di cemento e politica».
Il collaborante Birrittella. L’imprenditore che ha svelato i segreti della cupola trapanese formata tutta da imprenditori. In un periodo in cui non ci sono più collaborazioni e in una realtà come quella di Trapani dove la mafia è stata tradita da pocchissimi pentiti, lui è quello che ha alzato il coperchio di dievrse pentole colme di pericolose commistioni, ma in città oggi viene guardato con un distacco che tradisce un certo fastidio. «Le tesi delle difese che volevano evidenziare una collaborazione non genuina del dichiarante Birrittella sono del tutto infondate». La sottolineatura dei giudici è decisa, inequivocabile. Nino Birrittella, ex patron del Trapani Calcio, è l’imprenditore arrestato nel novembre 2005 per mafia, che poi ha deciso di collaborare con la giustizia non chiedendo programmi di protezione. «La posizione delle difese degli imputati – annotano ancora i giudici – sono fondate su deduzioni non ancorate a dati emersi in sede processuale». Birrittella è reo confesso del meccanismo perverso di condizionamento mafioso degli appalti. «Birrittella fornisce indicazioni dettagliate, precise, coerenti e che esse provengono da un soggetto che, per la sua posizione all’interno di “Cosa Nostra”, poteva certamente conoscere le vicende che riferisce. Peraltro il dichiarante, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa che ha cercato in più occasioni di sminuire l’apporto del
la fonte, ha riferito di numerosissimi fatti che non erano ancora a conoscenza dell’autorità giudiziaria nonostante l’imponente materiale raccolto tramite le intercettazioni delle conversazioni ambientali e, comunque, anche quando ha semplicemente fornito precisazioni su quanto già emergeva da tali conversazioni, i suoi contributi hanno consentito di dare alle stesse un’interpretazione logica e coerente, spiegandone il contesto e rendendole in tal modo effettivamente utili ai fini probatori». Il racconto di Birrittella è il racconto di un imprenditore passato da «estorto ad imprenditore pienamente colluso che agisce nell’interesse complessivo della “famiglia”. È il racconto di uno che le cose le conosce molto bene. È il racconto di un soggetto ieri rispettato, quando era un mafioso, oggi, da collaboratore di giustizia, considerato quasi un untore, «pietra dello scandalo» la sua collaborazione. Contraddizioni di una società che generalmente, come sostenne il pm Tarondo nella requisitoria, «continua a volere vedere situazioni equivoche in chi combatte la mafia».
Una cena per la nuova cupola. Una cena in un ristorante per sancire il nuovo «governo» di Cosa Nostra trapanese. Il Birritella colloca questa «conviviale» nella primavera del 2000, dopo la scarcerazione di Francesco Pace, il nuovo capo mafia, erede di Vincenzo Virga. «Nella primavera del 2000 noi facciamo questa riunione, presso il ristorante di via Firenze da Paolo Gallo, c’era Pace ed altri imprenditori, abbiamo fatto questa riunione dove pianifichiamo, abbiamo gettato le basi per la nuova stagione». E quali erano le novità? Il tessuto imprenditoriale era stato «massacrato» dall’azione estorsiva dei Virga, di Pietro in particolare, per cui Pace vuole rasserenare tutti, non perdendo però la sua parte. Il suo ordine fu «cafuddari nenti», di lavorare «araciu araciu». La «direttiva» di don Ciccio Pace, «era quella di volare basso…, se l’impresa capisci che paga va bene, se no gli diamo il calcestruzzo, però già va bene perché alla fine siamo sempre presenti, vigiliamo». Le rivelazioni di Nino Birrittella riguardano anche le modalità di riscossione del «pizzo». Soldi ufficialmente destinati ai detenuti e ai loro familiari. «L’ordine – dice – era quello di una gestione prudente e misurata, il “pizzo” agli imprenditori veniva fissato sempre nelle medesime percentuali (2 % o 3 % sugli appalti pubblici ed un milione di lire ad appartamento sull’edilizia privata) e nella quale si accettava anche che l’imprenditore non in grado di pagare la tangente si sdebitasse con l’acquisizione di forniture – ad esempio di ferro, di cemento – o con 1’assunzione di manodopera richiesta dai vertici della “famiglia”. E sul fatto che Birrittella non è un uomo d’onore ritualmente affiliato i giudici scrivono: «È un soggetto che sebbene non abbia la veste formale di “uomo d’onore”, caduta in disuso dentro “Cosa Nostra”, è pienamente inserito nel contesto criminale mafioso nell’ambito del quale ha svolto una vera e propria carriera».
Mafia, politica e appalti truccati. D’Alì e la Funivia di Erice. Gli appalti truccati alla Provincia regionale sono un altro dei temi affrontati dalla sentenza grazie alla testimonianza di un funzionario provinciale, arrestato e poi reo confesso, Vito Giacalone. Tra il 2000 ed il 2003 vennero truccate circa quattordici gare, cottimi fiduciari e grandi appalti aggiudicati con l’asta pubblica. Tra i funzionari corrotti Giacalone indicava Giovanbattista Grillo, Francesco Placenza, Sebastiano Orlando. Regista di questi appalti pilotati il valdericino Tommaso Coppola, ma anche Salvatore Di Girolamo, marsalese. Vito Giacalone fece anche l’elenco delle gare di appalto truccate, quella per la galleria Favignana-Scindo passo, aggiudicata all’impresa Coling, la Ericina -Difali, aggiudicata all’associazione temporanea di imprese Guercia & Guercia, la gara al bivio Lentina -San Vito lo Capo, che andò alla Sicil Strade del Di Girolamo Salvatore. Tra le pagine della sentenza sono descritti i modi con i quali era possibile alterare il risultato di una gara di appalto. Nel caso per esempio dei lavori per la galleria Scindo Passo di Favignana, aggiudicati alla Coling dell’imprenditore Morici, addirittura venne fatta dalla commissione di gara insediata alla Provincia una esclusione per un vizio di forma, come se mancavano dei documenti, così poi, spiegò Giacalone, da far ripresentare l’offerta. E tra gli appalti citati c’è anche quello della funivia per Erice. In una intercettazione si fa il nome dell’imprenditore Morici come colui il quale doveva realizzarla quando ancora la gara non era bandita e si sente dire a Coppola che prima di definire ogni cosa deve essere coimvolta la politica, «se ne deve parlare col senatore». Il nome non è scritto ma la vicenda fa parte delle indagini per mafia sul conto del sen. D’Alì. Tommaso Coppola è stato intercettato anche a parlare di politica ed elezioni con l’on. Bartolo Pellegrino, e a proposito di spartizione di appalti pubblici diceva che ciò avveniva per volontà di «un livello superiore». Per i giudici sarebbe fondato il racconto di Birrittella che ha fatto i nomi degli imprenditori
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