Ombre sull’Addaura: chi voleva morto Falcone?
È di qualche giorno fa la notizia dell’avvenuta iscrizione nel registro degli indagati della Procura della Repubblica di Caltanissetta di cinque esponenti di rilievo delle cosche palermitane, appartenenti alle famiglie dei Madonia e dei Galatolo: si tratta di Salvino Madonia, Raffaele e Angelo Galatolo, Angelo Fontana, oggi collaboratore di giustizia e Gaetano Scotto, già condannato all’ergastolo per la strage di via Mariano D’Amelio, in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Con questo atto dovuto da parte del procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e dei suoi pm Gozzo e Marino, si riapre ufficialmente una delle pagine più buie della storia della lotta alla mafia: quella del fallito attentato dinamitardo ai danni di Giovanni Falcone nel giugno del 1989 che chiama in causa, ancora una volta, il ruolo ambiguo giocato dai servizi segreti nella storia delle stragi e degli omicidi eccellenti del Paese.
È il 21 giugno del 1989, quando sulla scogliera antistante una villa, presa in affitto per l’estate da Falcone, nei pressi dell’Addaura, una delle più belle borgate marinare di Palermo, viene rinvenuta casualmente un borsone da sub contenente, tra l’altro, ben cinquantotto candelotti di dinamite. Scatta l’allarme perché all’interno del villino dovevano trovarsi gli obiettivi dell’attentato: oltre al magistrato palermitano, i suoi colleghi provenienti dalla Svizzera Carla Del Ponte e Claudio Lehman, impegnati in comuni indagini sul riciclaggio degli ingenti proventi derivanti a Cosa Nostra dal traffico di sostanze stupefacenti. La borsa viene fatta brillare forse troppo precipitosamente: “per evitare problemi di sicurezza”, si tenterà di giustificare poi in qualche modo. Alla luce delle recenti acquisizioni, oggi è più plausibile che si sia voluto fare sparire qualche traccia ingombrante e difficile da spiegare, senza tradirsi troppo.
Se è vero che Giovanni Falcone morirà soltanto tre anni dopo a Capaci, è altrettanto indiscutibile che proprio l’attentato all’Addaura mette in estrema allerta il magistrato, che fin da subito, nelle prime interviste rilasciate a caldo, non esita a puntare l’indice contro le “menti raffinatissime” che, a suo dire, si trovano dietro il fallito attentato. Falcone individua nella saldatura operativa tra le cosche di Cosa Nostra e gli apparati dei servizi segreti il “gioco grande” che può stritolare chiunque si opponga con determinazione e competenza e, per questo motivo, decide di uscire dal tradizionale riserbo che fino ad allora aveva improntato i suoi rapporti con la stampa, per ribadire ad alta voce quello che pensa, per dire a chi di dovere che lui, forse, aveva capito il messaggio. Non è un caso quindi se la strategia di progressiva eliminazione del proprio rivale numero uno preveda per Cosa Nostra, innanzitutto, l’avvio di una sottile opera di delegittimazione, orchestrata proprio in quei giorni con l’aiuto – fino a quanto inconsapevole? – di alcuni organi di informazione, i quali rilanciano con enfasi la tesi dell’attentato su misura, quasi organizzato dallo stesso giudice per ottenere attenzioni e promozioni e superare lo stallo in cui si trova all’interno dell’apparato giudiziario palermitano. Non ci sembra quindi azzardato sostenere che il magistrato palermitano inizia a morire proprio in quel momento, anche se passeranno ancora tre anni prima che i suoi nemici riescano ad ucciderlo.
Prima del tragico appuntamento con il 23 maggio del 1992, nella sua personale contro il tempo, Falcone riuscirà comunque a chiudere alcune inchieste di grande valore, a scontrarsi con il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco per la gestione delle indagini – una situazione di conflitto istituzionale che si ripeterà similarmente nel 1992, nei mesi che separano Capaci da via D’Amelio ma il protagonista questa volta sarà, oltre al solito Giammanco, l’amico di sempre e il collega fidato di Falcone, Paolo Borsellino – e, una volta trasferitosi a Roma, al Ministero di Grazia e Giustizia, a dare un contributo determinante e risolutivo nel pensare e costruire ad alcuni dei provvedimenti antimafia più incisivi nella storia del nostro paese. Capire oggi, a distanza di ventuno anni, cosa realmente accadde quella mattina all’Addaura può quindi metterci nelle condizioni di avere delle nuove e più convincenti risposte sulla strategia della tensione che la mafia inaugurò nel 1992, con le stragi di Capaci e via D’Amelio, per poi portare l’anno successivo l’attacco al patrimonio artistico nostrano, però fuori dai confini siciliani, con le bombe a Firenze, Roma e Milano.
Capire oggi, a distanza di ventuno anni, cosa realmente accadde quella mattina all’Addaura può servire a ridare credibilità all’azione dello Stato nel contrasto alla mafia, a partire da una necessaria opera di pulizia interna a settori così delicati, quali sono i servizi segreti. Capire oggi, a distanza di ventuno anni, cosa realmente accadde quella mattina all’Addaura può fare finalmente luce sugli omicidi dell’agente di polizia Nino Agostino e della moglie, Ida Castellucci, uccisi entrambi il 5 agosto del 1989, e di Emanuele Piazza, tolto di mezzo il 15 marzo del 1990 e collaboratore “in prova” del SISDE, il servizio segreto civile di allora. Per le causali di entrambi gli omicidi si puntò da subito sulla pista passionale, assolutamente improbabile visto il contesto nel quale le loro eliminazioni maturarono. Non è però la prima volta in Italia che l’incredibile assume patente di verità, in assenza di altri elementi. Di queste morti incomprensibili si è scritto tutto e il contrario di tutto e anche l’iter processuale ha lasciato molte ombre su quanto effettivamente accadde. Oggi, stando alla ricostruzione che in queste settimane gli inquirenti stanno mettendo faticosamente insieme, grazie anche alle nuove indicazioni fornite dai collaboratori di giustizia Angelo Fontana e Vito Lo Forte, lo scenario dello scampato attentato dell’Addaura, che fin ad ora era stato ricostruito nel corso dei diversi processi, va del tutto smontato per essere nuovamente ricomposto.
L’iscrizione tra gli indagati, poi, di Gaetano Scotto sembra anche lasciare presagire un collegamento tra l’Addaura e via D’Amelio, un link soprattutto operativo per quanto riguarda l’esplosivo e il telecomando che furono utilizzati in entrambe le occasioni. Di sicuro c’è la volontà di appurare se alcune tracce organiche, già acquisite al fascicolo processuale fin qui chiuso, possano oggi essere utilizzate per la prima volta per risalire all’identità di alcuni dei soggetti presenti sul luogo dell’attentato. Una verità, quella sull’Addaura, quindi che, nonostante gli ergastoli comminati nel 2004 ai danni di alcuni esponenti della cupola palermitana, tra cui Riina, Madonia e Biondino, sembra ancora essere inafferrabile, forse per ragioni di Stato. Secondo il collaboratore di giustizia Lo Forte, Agostino e Piazza erano sul canotto antistante all’Addaura e avrebbero di fatto, con la loro presenza, impedito che l’attentato, fissato per il 20 di giugno, andasse in porto. Al contrario, secondo Luigi Ilardo, il confidente del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, ucciso nel 1996 alla vigilia di entrare nel programma di protezione, Agostino e Piazza furono tra coloro che posizionarono l’esplosivo nella scogliera antistante il villino affittato da Falcone. Se fosse vera la prima ricostruzione, assumerebbero nuovo valore le parole che Falcone avrebbe pronunciato, presentandosi a sorpresa ai funerali di Nino Agostino e della moglie: “Questo ragazzo mi ha salvato la vita”.
Erano quindi all’opera due gruppi, uno che si muoveva da terra, un commando misto, composto da mafiosi e uomini dei servizi (deviati?) e un altro in azione in acqua. Stabilire i com
ponenti dei due diversi gruppi all’opera all’Addaura permetterebbe di arrivare ad un primo punto fermo. All’orizzonte, nel caso di nuove scoperte, suffragate da prove, si profila anche la revisione del processo, se si ritenessero gli ultimi elementi in grado di ribaltare la ricostruzione fin qui prevalsa.
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