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Un vuoto nella democrazia

Di Norma Ferrara il . Interviste e persone

Mancano sette giorni alle elezioni che cambieranno il destino politico dell’Italia, già scossa da Tangentopoli e dalle bombe della mafia. Siamo nel 1994, ed è il 20 marzo. Mentre in Italia i Tg trasmettono le immagini degli ultimi giorni della cosiddetta Prima Repubblica, due giornalisti inviati in Somalia, a Mogadiscio,  raccontano il ritiro del contingente italiano, dopo la fine della missione Restore Hope. Sono Ilaria Alpi (Tg3) e Miran Hrovatin (cameraman). Nei giorni precedenti i due inviati si sono recati nel nord del Paese, non sappiamo ancora cosa sono andati a fare, chi hanno incontrato e perché. Quello che sappiamo è che quel 20 marzo del ’94 un commando  attenderà il loro rientro a Mogadiscio, per ucciderli. Remigio Benni, il giornalista Ansa che darà per primo la notizia intorno alle 14:40, in uno dei lanci di agenzia, raccoglierà subito una  verità “Somalia: giornalisti italiani uccisi, un’esecuzione”. Di questo si è trattato, secondo i primi testimoni accorsi sul posto, di una esecuzione, come si  fa per i giornalisti che hanno in mano notizie che qualcuno non vuole vengano consegnate all’opinione pubblica. Eppure sedici anni di indagini e una Commissione parlamentare d’inchiesta non sono bastati a trovare colpevoli e mandanti di questo duplice omicidio. Un’inchiesta avvolta nella fitta nebbia delle informazioni negate sui misteri della cooperazione italiana in Somalia e sui traffici di rifiuti tossici e di armi. Questo traffico era infatti oggetto dell’ultima inchiesta Alpi – Hrovatin, che aveva scoperto, con molta probabilità, come in cambio di armi i signori della guerra concedessero fazzoletti di territorio per accogliere  rifiuti tossici smaltiti illegalmente. Un traffico che coinvolgeva mafie internazionali, godeva della copertura e complicità di strutture di potere pubbliche e private. Del lavoro della Commissione d’inchiesta, della possibilità di riaprire le indagini su questo duplice delitto e del  traffico internazionale di rifiuti, abbiamo parlato con Luciano Scalettari, giornalista e inviato di Famiglia Cristiana, per un anno consulente della Commissione, profondo conoscitore del continente africano, fra i pochi giornalisti che hanno portato avanti l’inchiesta “che non si doveva fare” sulla strada dei misteri, la Garowe – Bosaaso.

 

E’ indirizzata al Presidente della Repubblica una raccolta di firme che chiede la riapertura delle indagini sul duplice delitto. Cosa è accaduto nella Commissione d’inchiesta che avrebbe dovuto fare luce sul caso? 

La Commissione d’inchiesta su delitto di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è stata una parentesi nella democrazia in questo Paese.  Per le conclusioni cui è giunta ma soprattutto per le modalità con le quali ha operato. Dopo una prima fase nella quale sono state acquisite tutte le carte relative al caso Alpi, presenti in varie vicende processuali, si è avvalsa di strumenti che mai prima di quell’episodio erano stati utilizzati da una commissione. Si trattava di intercettazioni, perquisizioni di consulenti e di altre persone che si erano occupati del caso. C’è un problema, però. Il codice di procedura penale prevede che questi atti invasivi della libertà personale siano autorizzati da un magistrato terzo rispetto a chi conduce le indagini. La commissione dunque ha operato come un ufficio che autorizzava se stesso, fuori da ogni controllo.

Quale fu l’atteggiamento delle diverse forze politiche presenti in relazione a questa anomalia?


Quello che oggi appare chiaro è che il presidente Taormina assolse un “compito” preciso: condurre la Commissione d’inchiesta a determinati esiti per cercare di mettere la parola fine a queste indagini sul duplice delitto. E non fu certamente una sorpresa che il centrodestra appoggiasse il suo operato. Quello che lasciò perplessi fu invece il ruolo che il centrosinistra ebbe nelle sessioni di lavoro: la commissione procedette per i tre quarti del tempo  all’unanimità, col voto favorevole (lo si può verificare consultando i verbali delle sedute) dei parlamentari del centro-sinistra, fatta eccezione per il rappresentante dei Verdi, on. Mauro Bulgarelli. Solo successivamente, durante l’ultimo periodo dei lavori della commissione e la relazione finale del presidente Taormina, fece una strenua opposizione e produsse una relazione di minoranza, la terza, dopo quella della maggioranza e del deputato dei Verdi, Mauro Bulgarelli. Atteggiamento strano che si può riscontrare anche successivamente, durante il Governo Prodi durato un anno e mezzo, in cui c’era la possibilità di ricostituire una Commissione Alpi bis, proposta da alcuni membri dell’ex Commissione fra i quali Bulgarelli. I ritardi burocratici, i distinguo, gli iter inusuali seguiti fecero sì che non nascesse mai, nonostante fosse già all’epoca chiaro a tutti che si trattava dell’ultima possibilità per riaprire l’archivio della Commissione e scrivere la verità sulla morte di Ilaria e Miran.  In definitiva, tornando alla Commissione Taormina, il centrosinistra, pur prendendone le distanze nell’ultimo periodo, permise che i lavori in tutta la prima lunga fase procedessero – come ha dichiarato più volte il presidente Taormina  – “all’unanimità”,  senza segnalare anomalie e distorsioni che portarono poi a quelle conclusioni, note oramai a tutti.  

I documenti acquisiti portavano in una direzione: l’esecuzione di due giornalisti che avevano indagato su un traffico di rifiuti tossici fra Italia e Somalia negli anni novanta. Le conclusioni della Commissione furono però radicalmente opposte. Perchè?

È stata inizialmente raccolta una mole consistente di documenti, anche se non sono mai stati acquisiti né i fascicoli che riguardano il caso del colonnello Vincenzo Li Causi (morto in Somalia in circostanze misteriose nel novembre del 1993), né quelli del delitto Rostagno, né quelli del caso dell’aereo della Guardia di Finanza inspiegabilmente scomparso mentre sorvolava una nave, sospettata di traffici illeciti. I lavori si sono avvalsi di strumenti inutilizzabili, come già detto, e sono state seguite molteplici piste, alcune palesemente in contrasto con i dati già in possesso sulla situazione politica della Somalia. Dopo aver cercato il movente e aver indagato, apparentemente, sulla Cooperazione e il traffico di rifiuti, la Commissione si è soffermata a lungo sul movente legato al fondamentalismo islamico. Peccato che dal ’92 al ’93, proprio in Somalia, il fondamentalismo  fosse stato quasi azzerato, sconfitto militarmente da Abdullah Yossuf. Gli estremisti fuggirono nella zona di confine fra Somalia ed Etiopia. Lì si sono poi ricostituiti e oggi sono tornati attivi, ma in quegli anni è un fatto ampiamente documentato e noto che non avessero alcuna forza sul territorio.


A quanto pare non per la Commissione Taormina?

No, infatti. Ma quello che è accaduto è andato oltre l’immaginabile. Sono stati impiegati mesi preziosi sulle tracce del fondamentalismo islamico, nonostante le evidenti impossibilità di coinvolgimento nel delitto. E per avvalorare questa tesi, in Commissione, un agente del Sismi, tutt’ora in servizio, ha dichiarato che in quei mesi, nelle bancarelle di Mogadiscio, circolavano videocassette in cui si vedevano esecuzioni del taglio della mano o cose simili come se si applicasse la sharia, tanto era diffuso – a dire dell’agente – il fondamentalismo islamico in città. Chiunque abbia un po’ di conoscenza della storia somala sa che quelle affermazioni non corrispondono alla realtà. Sono dichiarazioni quantomeno imbarazzanti, perché a raccontare questo è stato un uomo dei servizi segreti itali ani, che non dovrebbe confondere Paesi, anni o situazioni a rischio. Eppure lui ha potuto dire queste cose in Commissione senza che nessuno gliene chiedesse conto. Nel mirino, invece, sono finiti altri: tutti gli agenti di polizia giudiziaria, i magistrati e i giornalisti che si sono occupati dei traffici di rifiuti, armi e malacooperazione in relazione al caso Alpi-Hrovatin. A proposito delle “mani tagliate”, ricordo che qualche deputato del centrosinistra ebbe un’immediata reazione e chiese all’agente spiegazioni di come, se la situazione all’epoca dei fatti fosse cosi grave, non risultasse alcuna informativa del Sismi in merito a questo pericolo cui erano esposti i connazionali presenti in Somalia.


Dopo questa fase, le conclusioni parlano di un “rapimento finito male” di due giornalisti in “vacanza” in Somalia. Come si arriverà a queste conclusioni che tanto hanno fatto discutere?

La svolta avvenne quando si palesò la scelta da parte del presidente, Carlo Taormina, di avere come testimone il faccendiere italiano residente da anni in Somalia, Giancarlo Marocchino. Marocchino è il primo ad arrivare sul luogo del delitto quel 20 marzo del ’94, ed è lo stesso che, mesi prima, era stato espulso dagli americani poiché sospettato di traffici illeciti internazionali. Al faccendiere italiano la Commissione affida il compito di recuperare la “presunta” automobile in cui viaggiavano i giornalisti al momento dell’agguato. Marocchino inoltre indicherà anche i killer, grazie all’aiuto di altri cittadini somali che risulteranno essere “suoi” uomini di fiducia. La perizia balistica di recente ha dimostrato che il sangue presente su quell’auto non è di Ilaria e le immagini girate al momento dell’agguato ritraggono un pick-up differente da quello riportato in Italia. Da un certo momento in poi, la Commissione cercherà però di costruire questa pseudo-verità, appoggiandosi a Marocchino e al suo legale, l’avvocato Stefano Menicacci. Costui ha un passato in Ordine nuovo e deputato Msi,  nonché uomo di collegamento fra la Lega nord, e le Leghe Meridionali nel periodo dei primi anni Novanta, tant’è che risulta fra gli inquisiti nell’indagine “Sistemi criminali”, archiviata, della Procura di Palermo. È Menicacci che offre a Taormina tutti i documenti su cui si baserà la relazione. Se un giorno si arrivasse alla desecretazione degli atti della Commissione, si potrebbe verificare quanto la relazione finale di Taormina ricalchi i teoremi dell’avvocato Menicacci.


Ci sono atti ancora coperti da segreto e queste “discusse” conclusioni. Com’è possibile acquisire tutti gli atti e riprendere queste indagini? 

Non è semplice, gli unici a poter intervenire sono il Presidente del Consiglio o le due Commissioni che stanno indagando, rispettivamente, su traffico di rifiuti e su organizzazioni mafiose, proprio perché dietro ci sono reati di mafia e traffici illeciti di rifiuti. Infine, solo un’altra Commissione Alpi potrebbe riprendere le fila di quel lavoro e, sulla base dei documenti, scrivere la verità che non è stata ancora scritta sulle motivazioni di quel duplice delitto a Mogadiscio.


 La politica continua ad avere un atteggiamento ambiguo al riguardo. Era a conoscenza o copriva questi traffici?  

Saremmo certi che la questione non stia in questi termini se vedessimo l’atto di desecretazione di questi atti, poiché  è stato denunciato, in tanti modi e in momenti diversi, il fatto che lì dentro c’è la verità sul caso Alpi e altre verità importanti, e nonostante ciò da quattro anni e mezzo non si riesce a riaprire l’inchiesta. Il dubbio che ci sia una volontà, non limitata alla maggioranza attuale ma un po’ più ampia, di non procedere, è fortissimo.  Giace comunque  dentro l’archivio della Commissione d’inchiesta una mole impressionate di documenti, inchieste, atti di Procure. Non solo. Al di là delle carte mai utilizzate, altre semplici verifiche non sono mai state effettuate.

Quali?

Ad esempio, non è mai stato fatto un lavoro comparato sulle carte bancomat e di credito e su tutto quello che risultava documentabile degli spostamenti di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, sia nei mesi precedenti che negli ultimi giorni di vita in Somalia. Non è mai stata fatta la perizia calligrafica sugli appunti (quelli superstiti, dato che sono scomparsi tre bloc notes) presi dalla giornalista durante l’ultimo viaggio in Somalia, anche se è noto che perlomeno le note prese su una parte dei time-code del girato non sono di Ilaria. Poi c’è il mistero delle videocassette, che stando a quanto dichiarato proprio in Commissione dal Sultano di Bosaso (intervistato da Ilaria pochi giorni prima di essere uccisa) sarebbero state manipolate e decurtate: il Sultano sostiene che la sua intervista è durata almeno due ore e verteva in gran parte su malacooperazione e traffici di armi e rifiuti. Ne abbiamo solo 13 minuti. Persino su queste non è stata mai fatta alcuna perizia. Molte immagini presumibilmente non sono mai giunte, perché se è vero che è stata tagliata l’intervista al Sultano, è ipotizzabile che altre parti delle immagini girate in quei giorni siano state sottratte.

Com’è stato possibile che qualcuno abbia manomesso e sottratto il materiale audiovisivo? 

Le cassette arrivarono su un aereo insieme ai corpi di Ilaria e Miran.  All’arrivo in Italia si riscontrò subito un’anomalia: erano  stati violati i sigilli che chiudevano i bagagli imbarcati a Mogadiscio. Le videocassette, com’è stato accertato, furono portate via da persone della Rai con l’intento – così hanno dichiarato in Commissione – di montare al Tg3 un servizio con le ultime immagini girate dai due giornalisti in Somalia.  Le videocassette rimarranno ferme alla Rai e poi ritorneranno saranno riconsegnate poi agli inquirenti, ma non si sa chi possa aver avuto accesso ai video in quel lasso di tempo ed eventualmente manomesso i materiali).

Da giornalista che ha seguito questo caso, che idea si è fatto sull’inchiesta e le informazioni in possesso di Ilaria Alpi? 

Quel servizio che con altissima probabilità Ilaria e Miran avrebbero inviato a Roma la sera in cui sono stati uccisi, poteva avere effetti dirompenti (e forse diventare il primo di una serie di servizi) sull’opinione pubblica italiana, capaci di creare uno scandalo di dimensioni internazionali, proprio a cavallo delle elezioni del 27 marzo del 1994, incidendo fortemente sugli equilibri politici. L’inchiesta dei due giornalisti raccontava una storia di traffico d’armi e rifiuti che coinvolgeva  figure somale e italiane e varie istituzioni che hanno coperto questi traffici e consentito che andassero avanti per ragioni di opportunità politica. Le cose che Ilaria Alpi sapeva, e ci sono tutte le argomentazioni per dimostrare che sapesse, sono più che sufficienti per considerare che quell’ultimo viaggio in Somalia fosse utile per andare a recuperare gli elementi necessari per raccontare che, all’ombra di una brutta Cooperazione, si faceva business sullo scambio di rifiuti e armi. Il problema è che quel servizio avrebbe messo in evidenza il ruolo ricoperto da  pezzi di nostre istituzioni, evidenziando la componente politica che forniva copertura a quei traffici, il Psi,  partito che proprio in quella fase stava trasmigrando in massa dentro una nuova coalizione, Forza Italia,  dopo il 1994 passata alla guida del Paese. Forse perché ben indirizzata da una fonte, Ilaria aveva acquisito  prove che andavano a toccare alcuni nervi scoperti della politica italiana che stava per fare la svolta, per chiudere il capitolo del “caos” degli ultimi anni: da Mani pulite, all’ascesa della Lega, dal rischio di un colpo di Stato nel’ 93, sino alle bombe della mafia. Così, nel momento in cui sembrava che si andasse a suggellare un nuovo equilibrio, sarebbe andato in onda sul servizio pubblico un’inchiesta che raccontava come, anche con la collaborazione della mafia, figure di Gladio, imprenditori e uomini politici italiani avevano interrato rifiuti e venduto armi in Somalia. E, dettaglio da non trascurare, era il servizio pubblico radiotelevisivo, a trasmettere quel servizio.

Prima ha parlato di una fonte che avrebbe indirizzato Ilaria verso questa inchiesta? di chi si tratta? 

E’ probabile, per quel che risulta da diversi indizi, che Ilaria Alpi, pur non essendo una giornalista prettamente d’inchiesta, fosse giunta ad avere informazioni precise attraverso un uomo del Sismi, probabilmente Vincenzo Li Causi, morto in circostanze non chiarite nel novembre del 1993, solo quattro mesi prima del duplice omicidio che ha eliminato Ilaria e Miran.  Li Causi, per i ruoli che aveva, per i segreti che custodiva sulle operazioni speciali che aveva fatto in precedenza, era in grado di informare Ilaria Alpi su questi traffici e dare gli elementi esatti su dove andare a cercare le prove e i testimoni. A mio avviso, questo è ciò che è accaduto.

Dall’omicidio Alpi – Hrovatin lei segue ancora gli sviluppi di quell’inchiesta. Si è sei recato, insieme ad altri colleghi, in Somalia nel 2005 e nel 2007, trovando testimonianze importanti in merito. Si sente di escludere che questo traffico di rifiuti e di armi coinvolga ancora oggi il nostro Paese, le mafie e arrivi sino alle coste somale?

Ci sono dei dati che dicono, incontestabilmente, che i traffici di rifiuti continuano. Lo racconta in maniera eclatante anche l’ultimo rapporto Ecomafie di Legambiente: sono note le cifre della produzione di rifiuti e  quelle dello smaltimento legale; il gap fra la prima e il secondo rappresenta il  traffico illecito, in Italia o all’estero. Quella quantità è stata quest’anno condensata in una cifra pari a migliaia di tonnellate,  una montagna di rifiuti che scompaiono dai percorsi regolari di smaltimento. Dire che oggi vada in Somalia  non è facile perché non ci sono prove. Se io fossi un trafficante di rifiuti, in questo momento, li manderei in Somalia, perché la situazione è tale e quale alla situazione degli anni ’90: non è cambiato nulla, è una nazione penetrabile, come si faceva allora, con corruzione o altre azioni. Sarei sorpreso, dunque, che ciò non stia accadendo.

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