Omicidio Mattei: si ritorna a parlare della “tigre di Riesi”
Era il 30 Maggio del 1978, nei pressi di un’anonima fermata di autobus di Via Leonardo Da Vinci, a Palermo, un uomo cadeva sotto i colpi esplosi dai suoi esecutori: non il solito omicidio di mafia, ma, invece, un’eliminazione eccellente, l’obiettivo raggiunto era, infatti, Giuseppe Di Cristina, figlio di Francesco e nipote dell’omonimo ex campiere, soprannominato “birrittedda”, veri gestori del potere politico e criminale a Riesi, piccolo centro della provincia di Caltanissetta. Solo ieri, Antonio La Perna, vecchio appartenente alla famiglia mafiosa gelese, molto vicino allo storico gruppo degli Emmanuello, ed in particolare al patriarca Angelo, ucciso alcuni anni prima della drammatica guerra di mafia insorta tra stidda e cosa nostra, ha riacceso, con le dichiarazioni rese innanzi ai giudici della Corte d’Assise di Palermo, che stanno celebrando il procedimento penale avente ad oggetto la morte del giornalista, Mauro De Mauro, curiosità e sospetti strettamente legati alla morte di uno dei padri del capitalismo italiano, l’ex presidente dell’Eni, Enrico Mattei.
La Perna ha dichiarato di aver ricevuto ordini dai suoi capi inerenti la ricerca di armi ed uomini allo scopo di realizzare un omicidio, direttive successivamente assopitesi a causa di un passaggio di consegne in favore di gruppi criminali catanesi: capendo, solo dopo parecchi anni, che le indicazioni fornitegli coincidevano con le caratteristiche dell’attentato ad Enrico Mattei. La confessione resa si affianca, peraltro, a quella fornita nel Settembre del 1993 dallo stiddaro, Gaetano Iannì, informato della presenza di una mano mafiosa nella morte del padre dell’industria italiana, nel corso di un summit organizzato dalla fazione opposta a cosa nostra, svoltosi a Favara, in provincia di Agrigento, che ebbe tra i partecipanti la fonte citata dal gelese, ovvero Gaetano Di Bilio di Riesi, già componente del locale gruppo mafioso.
Anche Tommaso Buscetta condusse una ricostruzione simile: nei tre casi, comunque, un unico elemento non viene mai meno, l’interessamento all’organizzazione di tutte le fasi del piano da parte del boss, Giuseppe Di Cristina, l’uomo, cioè, crivellato di colpi difronte alla fermata degli autobus di Via Leonardo da Vinci a Palermo. Tesi ribadita da un altro collaboratore di giustizia, Francesco Di Carlo, giunto a descrivere l’azione di alcuni uomini, direttamente inviati dal boss nisseno, capaci di collocare alcune cariche di esplosivo sul carrello anteriore del velivolo che avrebbe dovuto condurre l’uomo d’affari a Milano, esplodendo, invece, nei pressi di Bascapè, in provincia di Pavia.
Il boss di Riesi, vero protagonista di una mafia che si opponeva all’ascesa dei Corleonesi, al punto da trovare la morte in quel 30 Maggio di trentadue anni fa, può ritenersi un classico esempio di “padrino” mafioso, in grado di controllare alleanze politiche ed affaristiche: al suo matrimonio, solo per fare un esempio, testimoni furono Giuseppe Calderone, importante boss catanese, e Graziano Verzotto, senatore della Democrazia Cristiana, il quale, il 27 Ottobre del 1962, giorno della morte di Mattei, avrebbe dovuto accompagnare l’imprenditore marchigiano nel viaggio verso Milano, se non fosse stato per un improvviso impegno politico a Siracusa.
Confessioni, colpi di scena, mezze verità o menzogne, intanto si continua a parlare della “tigre” di Riesi, temuto e rispettato, anche nel comune di origine, al punto da generare, da morto, una sorta di rito collettivo tramutatosi nel suo funerale: in un paese di circa diecimila abitanti, ben settemila persone parteciparono alle esequie, accompagnate dalla chiusura di negozi ed uffici pubblici.
In fondo, se ne era andato il padrone di Riesi.
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