Morto il “testimone del “giallo” del cortile Mannone di Castelvetrano
C’è una foto che è l’icona delle trame torbide della mafia siciliana. È l’immagine di Salvatore Giuliano, il bandito di Montelepre, morto ammazzato nel cortile dell’avvocato Gregorio Di Maria, l’avvocaticchio, la cui casa si apre sulla via Mannone di Castelvetrano. Il bandito riverso a pancia sotto per terra, ma non era stato ucciso in un conflitto a fuoco come volevano far credere, ma nel chiuso di una stanza, a casa De Maria. La sceneggiata serviva a coprire una innaturale messinscena organizzata dalla mafia e tollerata dalle istituzioni. Era il 5 luglio 1950. Di quella vicenda Gregorio De Maria era rimasto l’unico testimone. Non ne ha mai voluto parlare con dettagli di particolari. E non ne potrà più parlare. Ieri all’età di 98 anni è morto, di vecchiaia, in ospedale. A casa sua erano stati i Marotta, Giuseppe e Nino, a portare Giuliano, la vigilia di Natale del 1949, per nasconderlo, in quella casa si presentò una sera Gaspare Pisciotta, Gregorio De Maria si limitò a dire poche ore dopo cosa sentì accadere, udì colpi di arma da fuoco provenire dalla stanza di Giuliano, fece per raggiungerla ma incontrò Pisciotta che scappava, «avvocato qui sparano» avrebbe detto, e anche lui cercò riparo. Poi la messa in scena, scoperta da un giornalista Tommaso Besozzi, sull’Europeo.
L’«avvocaticchio» De Maria si è sempre portato appresso i segreti di quella notte. E di questa storia si è tornati a parlare alcune settimane addietro quando la Polizia con l’operazione antimafia «Golem», quella che ha fatto terra bruciata attorno al latitante castelvetranese Matteo Messina denaro, arrestò anche «quel» Nino Marotta, novantenne, il più vecchio mafioso trapanese. E quando qualcuno chiedeva a De Maria come si comportava quando lo incontrava, quell’uomo in fin dei conti gli aveva cagionato tanti guai, fermato anche la «carriera» di notaio, segnandolo per sempre, l’avvocato rispondeva in modo severo, «io lo saluto per prima».
Allo scrittore Alfio Caruso l’avvocato Di Maria aveva fatto qualche confindenza in più, dicendo che Giuliano morì «perchè conosceva troppi segreti, aveva stretto patti innominabili con i partiti di centrodestra, mafia e massoneria, che lo gestivano, non potevano lasciarlo in vita». Per quella «notte» di luglio l’avvocaticchio finì sotto processo con la banda Giuliano a Viterbo, ma fu assolto, il resto della vita la tarscorse sino alla pensione a fare il professore all’istituto professionale.
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