La giustizia in Afghanistan una questione tutta italiana
Era il 5 Dicembre del 2001, le “Twin Towers” erano state colpite solo da qualche mese, il terrorismo globale mieteva costanti allarmi, alla base dell’espansione di politiche securitarie preventive: a Bonn, in Germania, i rappresentanti degli Stati intervenuti in Afghanistan, si riunivano allo scopo di tracciare una virtuale mappa finalizzata alla ricostruzione, istituzionale e civile, dell’ex “protettorato talebano”. L’Italia, proprio durante quel consesso, assunse la guida del programma di riorganizzazione e riforma del sistema giudiziario afghano. Alle luce dei recenti fatti, però, qualche dubbio sull’efficacia dell’azione nostrana non può che sorgere: due medici ed un tecnico, dipendenti della ong, “Emergency”, Marco Garatti, Matteo Dell’Aira e Matteo Pagani, prelevati dall’ospedale di Lashkar Gah, gestito dalla stessa organizzazione, accusati di essere le menti di un complotto destinato all’uccisione del governatore di Helmand, rilasciati a distanza di otto giorni, con tanto di scuse utili a coprire un evidente buco nell’acqua investigativo. E allora? Dal 2002 il nostro Paese ha speso una cifra collocabile intorno ai 71 milioni e 400 mila euro, solo per la ristrutturazione dello stato di diritto in Afghanistan: aveva iniziato, nel Febbraio del 2003, praticamente con due anni di ritardo, l’Ufficio Italiano Giustizia, aperto nella capitale, Kabul, con funzioni di coordinamento del settore giustizia e di monitoraggio dei lavori in corso, punta di diamante di un programma definito dal responsabile dell’intera operazione, il professore Giuseppe Di Gennaro, rimasto in carica fino alla prima metà del 2004, e sostituito, per un altro breve periodo, fino al 2005, da Jolanda Brunetti. Nel 2007, a conclusione di un primo ciclo d’azione, caratterizzato da talune manchevolezze organizzative, come quelle registratesi nel periodo ricompreso tra il Settembre del 2006 ed il Novembre dell’anno successivo, fase temporale di vero e proprio stand by dell’Ufficio Italiano Giustizia, dovuto “alle ridotte dimensioni dell’organico a disposizione”, a questo primo “baluardo” del tentativo italiano si sostituì il “Programma Giustizia”, diretta emanazione dell’Unità Tecnica Locale dell’Ambasciata d’Italia a Kabul (UTLKabul), sotto il controllo dell’ing. Maurizio Di Calisto. Questa nuova “creatura” si occupa, allo stato attuale, del monitoraggio di 11 progetti di ricostruzione nonché del Progetto Giustizia del “National Justice Programme”, per il quale sono stati stanziati dal governo 10 milioni di euro. Tra le realizzazioni ritenute maggiormente significative dai responsabili della ricostruzione giudiziaria afghana: il codice di procedura penale, solo provvisorio, insieme alle raccolte inerenti la legislazione minorile e quella penitenziaria. Altro punto di forza, almeno secondo gli originari auspici, doveva essere la formazione degli operatori del diritto locali, ma stando ad una valutazione interna redatta dai funzionari dell’Idlo, International Development Law Organization, risalente all’Agosto del 2008, “i risultati ottenuti sono molto modesti se messi in relazione alla quantità dei fondi versati, corrispondenti al 21% dell’intera spesa italiana rivolta alla riforma della giustizia afghana”. Secondo l’Istituto Affari Internazionali, “in linea generale, la leadership italiana nella riforma del sistema giudiziario afghano ha scontato gli effetti negativi di alcuni fattori quali: il ritardo nell’avvio delle attività di assistenza (l’Ufficio Italiano Giustizia è stato inaugurato solo nel 2003); le limitate risorse umane e materiali rispetto alla dimensione degli obiettivi; le carenze di coordinamento tra l’Ambasciata d’Italia a Kabul e l’Ufficio Giustizia; le oscillazioni nella consapevolezza, anche politica, della rilevanza e della proiezione dell’iniziativa”. Lo stato di diritto, quindi, non appare un obiettivo così alla portata di mano: a nove anni dall’invasione afghana, infatti, “il sistema di giustizia afghano è ancora oggi lungi dal potersi definire efficiente. Circa l’80% delle liti è risolto dai consigli di villaggio (collegi formati dagli anziani dei clan che gestiscono gli affari locali, inclusa la giustizia), mentre dilaga la corruzione negli uffici giudiziari”. E le diverse relazioni parlamentari non sembrano aprire particolari varchi di speranza, individuando tra i principali disvalori dell’intera operazione “giustizia-afghana”, “la mancanza di una strategia politica unitaria”, “i continui attriti tra gli attori internazionali presenti in loco, divisi da gelosie ed incapaci di stabilire in comune accordo i progetti prioritari”, “la modesta assistenza economica e tecnica fornita dagli attori internazionali”. Una riforma, quella della giustizia in Afghanistan, descritta come fondamentale, anche se in realtà, analizzando i bilanci forniti, si intuisce facilmente la sua natura decisamente poco strategica: solo nel 2009, infatti, tra voci di spesa prettamente militari e capitoli rivolti alla dimensione civile, lo stanziamento totale varato è stato pari a 540.114.446 milioni di euro. La missione militare, riconfermata con voto parlamentare, praticamente bipartisan, lo scorso 9 febbraio, ha assorbito, per il solo primo semestre del 2010, ovvero fino a giugno, la cifra di 308 milioni di euro, quindi 51 milioni al mese, contribuendo a rimpolpare il complessivo esborso italiano, garantito in questi nove, lunghi, anni sia da governi di centro-destra e centro-sinistra, di 2,3 miliardi di euro. L’iniziativa occidentale, e in particolare italiana, sul fronte giustizia, dunque, non può di certo definirsi ineccepibile: sforzi, spesso, vanificati dalle stesse autorità locali, per la maggior parte diretta emanazione dei voleri internazionali, capaci, ad esempio, dietro autorizzazione del presidente, Hamid Karzai, di tramutare in legge una “particolare” riforma del diritto di famiglia sciita, ricomprensiva dell’obbligo per le donne di non rifiutare, in alcun caso, il rapporto sessuale richiesto dal marito, accompagnato dalla necessità di un via libera, rilasciato dallo stesso alla moglie, idoneo a garantirle la possibilità di varcare l’uscio casalingo. Sembra esserci un unico grande assente, al momento, in Afghanistan: lo stato di diritto.
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