Non sono samurai invincibili*
Se tentiamo di ragionare sui frammenti di verità che la cronaca ci offre in questi giorni, dobbiamo confessare una sensazione: pare proprio che il terrorismo italiano, almeno quello delle Brigate rosse, sia giunto a un tornante decisivo. Le notizie delle ultime ore, la tragedia dell’avvocato Arnaldi a Genova o l’arresto di Sergio Spazzali a Milano, sembrano iscriversi in quel filone aperto da Peci e dagli altri brigatisti pentiti. E ancor più colpiscono gli squarci che ci aprono nel tessuto dell’organizzazione terrorista, dopo gli arresti in fabbrica. Impressiona l’ex operaio della Lancia, Domenico Iovine, che legge un proclama di adesione alle Br nel tribunale di Biella. Impressiona la ragazza di Torino, Serafina Nigro, che si premura di spiegare la specializzazione del suo lavoro nelle Br, «settore informazioni su carabinieri, polizia, magistratura e agenti di custodia». È tanto estesa, dunque, l’organizzazione brigatista o non ci si trova di fronte a un gioco degli specchi per cui un gruppo di poche decine riesce a sembrare un piccolo esercito? A voler essere realisti, si deve dire che il tentativo di conquistare l’egemonia nelle fabbriche è fallito. I terroristi risultano isolati dal grosso della classe operaia. Epperò sono riusciti a penetrare in alcune zone calde di grandi fabbriche, come è successo alle Presse o alle Carrozzerie della Fiat. Si è scoperto che il terrorista non esita ad acquattarsi sotto lo scudo protettivo delle confederazioni sindacali e perfino del Partito comunista.
Anzi, il brigatista Iovine ha strettamente legato la milizia clandestina con le lotte sindacali più dure alla Fiat, i blocchi stradali del luglio scorso, i cortei nell’azienda. Si assiste, insomma, al tentativo fin troppo chiaro: il brigatista cerca di far vedere che la sua lotta armata può essere la continuazione dell’azione in fabbrica. È una mossa spregiudicata; i sindacalisti e la stragrande maggioranza dei lavoratori la respingono. Ma non c’è dubbio che questa linea delle Br costringe a rifare i conti con una realtà complessa: non serve parlare di fascisti travestiti, quando le biografie personali di capi brigatisti come Lorenzo Betassa o Riccardo Dura rivelano una lunga militanza nel sindacato e in altri gruppi di vecchia o nuova sinistra. L’interrogativo da porsi è un altro: come mai certi lavoratori hanno fatto il salto terribile? Qual è la molla decisiva? Questo è il terreno inesplorato, e forse converrebbe mettere un po’ da parte la discussione sulle matrici ideologiche e preoccuparsi delle ragioni individuali, magari psicologiche. Stupisce sapere, come si è detto in questi giorni, che la mitica direzione strategica delle Brigate rosse sarebbe formata da non più di cinque persone: gli operai Betassa e Dura, il tecnico Moretti, la maestrina Balzarani e l’ex cameriere Peci. E fra loro, solo Moretti avrebbe collegamenti col supervertice politico, il sinedrio occulto dei capi di tutti i capi. In ogni caso, conviene non cadere nelle facili mitologie per cui uno diventa l’inafferrabile e l’altra l’onnipresente. Lo sforzo che si deve fare è di guardare la realtà nei suoi termini più prosaici, nell’infinita gamma delle sue contraddizioni; senza pensare che i brigatisti debbano essere, per forza di cose, samurai invincibili. Guardare in faccia la realtà significa non nascondersi il proselitismo che i gruppi armati hanno realizzato nelle fabbriche. Quanti dovevano essere, in febbraio all’Alfa Romeo, per compiere l’agguato contro un dirigente dentro lo stabilimento? Quanti dovevano essere, alla Lancia di Chivasso, per scrivere «onore ai compagni caduti» sui muri della fabbrica dove aveva lavorato Piero Panciaroli, uno dei quattro uccisi nell’appartamento di via Fracchia? E la stessa domanda bisogna porsela per gli striscioni da campagna elettorale che hanno attaccato giovedì sul cavalcavia di Genova e venerdì davanti alla Breda e alla Magneti Marelli di Sesto. Intendiamoci: le Brigate rosse si sforzano di dimostrare una forza superiore a quella reale. Però chi vuol combattere seriamente il terrorismo non può accontentarsi di un pietismo falsamente consolatorio, non può sottovalutare la dimensione del fenomeno. In questo senso, la scoperta dei brigatisti mascherati da delegati sindacali è stato uno choc violento, tale da amplificare il clima di sospetto.
L’Adriano Serafino, sindacalista di punta fra i metalmeccanici torinesi, ha raccontato un paradosso attorno al quale si è discusso seriamente: «Se arrestassero il segretario del sindacato, noi che faremmo? Andremmo davanti alle carceri con un corteo di protesta, o sospenderemmo il segretario dall’organizzazione?». L’interrogativo nasce da una considerazione: «Il segretario del sindacato è il più insospettabile. Ma proprio perché è il più insospettabile può essere ance il più sospettato». Paradossi a parte, gli arresti di Torino e Biella impongono al sindacato di riconsiderare dieci anni di storia. La fabbrica è diventata il centro di uno scontro sociale che poi ha trasferito i suoi effetti nella società, nei rapporti politici. I brigatisti hanno cercato d’inserirsi in questo processo, in parte raccogliendo il consenso delle avanguardie più intransigenti. Giova rileggere e meditare quel che ha detto il giurista Federico Mancini, a un recente convegno Uil: «Le lotte 1969-72, proprio perché così estese e antagoniste, mobilitarono militanti in eccesso: col risultato che nel ’73, quando il sindacato cambiò strategia, molti di loro – esperti com’erano di un solo mestiere, la lotta – continuarono a correre». Si determinò un «sovrappiù di militanti», che in parte trovarono sbocco nei nuclei clandestini. E Piero Fassino ha scritto su Rinascita: «Il terrorista può vivere e alimentarsi in fabbrica solo su obiettivi che richiedano, per essere perseguiti, il ricorso a forme di illegalità». La lezione pare fin troppo chiara: le lotte sindacali più dure, quelle oltre i limiti convenzionali della legalità, sono servite agli arruolatori delle Br come un primo banco di prova e di selezione. Il sindacato dovrà tenerne conto, giacché i proclami nobili vanno accompagnati con revisioni coerenti. Questo può implicare anche una temporanea diminuzione del potere sindacale in fabbrica. Ma la scelta non ammette grandi alternative, se è vero come è vero (e tutti i dirigenti sindacali lo ripetono) che il terrorismo è l’alleato «oggettivamente» più subdolo del padronato, e se non viene battuto può ricacciare indietro di decenni la forza del movimento operaio. La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugare. Tenendo conto che i confini della risaia sono meglio definiti oggi che non tre mesi fa. E tenendo conto di un altro fattore decisivo: l’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze. E forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascano non dalla paura, quanto da dissensi interni, laceranti sull’organizzazione e sulla linea del partito armato.
* Corriere della sera,
20 aprile 1980
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