Diario di un 25 aprile a Ragusa
Piove. Sono le undici circa a Ragusa, in piazza San Giovanni. Da lontano si può sentire il suono della voce dei militanti del Collettivo La Fabbrica, amplificato da un megafono; i presenti, una quindicina, si sono riparati sotto i portici per la pioggia. Siamo sotto la lastra delle vittime del 9 aprile del 1921. Inizialmente si doveva fare tutto alle undici, ma si è deciso di posticipare di un’ora. decidono di posticipare la commemorazione di un’ora per motivi indipendenti dalla loro volontà, ma finiscono prima delle 12; d’altronde non c’è il rischio di deludere masse di arrivati dell’ultima ora. Le autorità hanno già commemorato, se così si può dire, i caduti ella Resistenza in pochissimo tempo e sono rimasti solo alcuni membri delle forze dell’ordine. Gli antifascisti sono pochi, ma non assenti. Quello che manca, invece, è il cittadino ragusano: la zona è semideserta; ci sono una decina di persone sotto il porticato, ma non sembrano molto interessate.
Forse avranno pensato che i tizi col megafono erano degli imbonitori, gente venuta da lontano a vendere spezie pregiate. Forse no; se lo avessero pensato, si sarebbero precipitati ad ascoltare: quelle sono cose che contano davvero. In fin dei conti per i Ragusani il 25 Aprile è la festa della scampagnata, non dell’antifascismo. Pippo Gurrieri ci ricorda che il fascismo a Ragusa è stato violento come in Emilia: sia per la mancanza di mafiosi, che altrove in Sicilia reprimevano quotidianamente le lotte bracciantili, sia per la grande forza che i movimenti locali di Sinistra avevano dimostrato. Carlo Natoli dà appuntamento ai presenti alla sala Falcone-Borsellino per l’iniziativa serale. Ibla, sera. C’è proprio Carlo Natoli sul palco, insieme a Michele Mililli, anche lui di La Fabbrica. All’entrata è stato allestito un banchetto con materiale informativo; i ragazzi si sono dati parecchio da fare. La sala è abbastanza gremita. Fuori c’è un forte dispiegamento di forze di polizia. Mentre si attende che arrivi Adelmo Franceschini, sopravissuto ai campi di prigionia tedeschi, un militante ci fa ascoltare la voce registrata di suo nonno partigiano; è una testimonianza abbastanza forte, che non risparmia nemmeno le orribili torture che i nazi-fascisti riservavano a chiunque ritenessero un nemico. E non stiamo parlando solo di dolore fisico: riuscivano perfino ad urinare addosso alle loro vittime. Segue un breve dibattito, in cui viene denunciata principalmente la grande emergenza democratica che stiamo vivendo. Finalmente arriva Adelmo. La sua storia non è meno toccante.
Dopo la sconfitta italiana decise di non entrare a far parte della Repubblica Sociale: l’alternativa posta dai tedeschi erano i campi di prigionia. “Per nove giorni e nove notti restammo nei camion ed eravamo costretti a fare i nostri bisogni nelle valigie” racconta. Giunti nel campo, i tedeschi li fecero spogliare e davano loro una bastonata sulla schiena gridando insulti contro Badoglio. “L’esercito italiano aveva in dotazione due divise, una di tela, estiva, e una di panno, invernale. In 24 mesi di prigionia tenemmo addosso sempre la stessa divisa di tela”. Fame e freddo. Ci mostra la sua targhetta, con su il numero con il quale lo chiamavano i tedeschi, un surrogato scadente del nome, un modo per tentare di spogliare l’uomo della sua dignità. 47737. I prigionieri facevano 4 Km nella foresta, perché raggiungessero una fabbrica di V1 e V2, i missili con cui Hitler bombardava l’Inghilterra. Una dieta poverissima lo aveva portato a pesare 30 kg. La liberazione arrivò con l’Armata Rossa, di cui i prigionieri italiani furono ospiti per un breve periodo. Dei 650000 deportati nei campi di prigionia 50000 non tornarono. Adelmo si indigna per le dichiarazioni di La Russa, un ministro in carica della Repubblica, per cui i militari che rifiutarono di entrare nella R.S.I., lo fecero per quieto vivere: “è un’offesa a noi che abbiamo vissuto quest’esperienza, ma, soprattutto, per quei 50000 che sono morti”. “La democrazia e la libertà non sono per sempre, bisogna difenderli” denuncia Adelmo. “Ancora oggi nel mondo ci sono un sacco di guerre dimenticate. Una di queste è la fame nel mondo: finché ci sarà la fame, non avremo mai la pace nel mondo”. Carlo Natoli ci introduce al film-documentario “Nazi-rock” e ci spiega cosa è successo nei giorni precedenti. Forza Nuova ha diffidato i ragazzi de La Fabbrica, ma senza alcun risultato; allora ha chiesto di fare un sit-in davanti la Falcone-Borsellino, anche stavolta senza successo; infine ha avuto il permesso per un banchetto alla villa. La questione sollevata dai neofascisti? Il documentario contiene delle interviste a membri del loro partito, interviste che gettano cattiva luce su di loro. Dopo averlo visto, si potrebbe dire che sono loro a gettarsi la zappa sui piedi: una serie di dichiarazioni dei neofascisti, che potrebbero essere definite da ricovero.
Il sottofondo a questa serie di frasi incoerenti è la musica di estrema destra: penosa sia nelle liriche che negli arrangiamenti, del tutto infantili. Prima del film, un militante ci ricorda che stanno cominciando i processi per i quattro ragazzi de La Fabbrica denunciati dopo lo sgombro.
* Il Clandestino – Ragusa
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