Perchè una rivista d’intercultura e perchè a Lecce
La vittoria del bando regionale “Principi attivi_giovani idee per una Puglia migliore” ci ha dato una grande opportunità per operare in un contesto, quello leccese, in cui in meno di un lustro le presenze immigrate sono raddoppiate. Succede che dovremo abituarci al dialogo, e quale mezzo migliore per esercitarlo se non una rivista?
Magari, come faremo, redatta e raccontata tanto da italiani quanto da immigrati. I lavori sono in corso, nell’ottica di una prossimità sempre più definita nei confronti dei nostri lettori, che consideriamo come cittadini, tutti, che consideriamo per i loro diritti, i loro doveri e le loro storie, perché tutti possiedono un patrimonio sociale che l’appiattimento dell’integrazione potrebbe cancellare. “Non dimentichiamo di essere un popolo di migranti”: così diceva Napolitano a ottobre 2009, e sembra sia passato un secolo (a ritroso), invece è appena l’inizio dell’anno quando scoppiano i fatti di Rosarno. In mezzo un mare di cronaca. Nera o grottesca, avente come leitmotiv la caccia istituzionalizzata all’immigrato. Come a San Martino dall’Argine, provincia di Mantova, regione Lombardia, o al “White Christmas” di Coccaglio, Brescia, regione Lombardia. La Lombardia è una delle regioni più ricche d’Italia, contribuiscono alla sua ricchezza un milione circa di immigrati e un numero non quantificabile di terroni. E da Varese, regione Lombardia, proviene Maroni, che dopo Rosarno ripete di voler calcare la mano sugli immigrati, perché il nostro paese è stato finora troppo permissivo con loro. Permissivo, forse, nel senso di “permesso di soggiorno”, quel pezzo di carta per avere il quale quote sottostimate di lavoratori immigrati sono disposti ad accettare qualsiasi condizione. A Rosarno si sono stufati; molto presto, il 1 marzo, si stuferanno gli immigrati di tutta Italia e di tutta la Francia, in modo più pacifico, ma questo al giorno d’oggi non sembra più scontato. Noi intanto siamo in Puglia: abbiamo avuto il “Black Christmas”, ma siamo al centro del primo processo moderno in Europa per riduzione in schiavitù di persone immigrate. Una terra di contraddizioni, non una meta preferita dagli stranieri se non per i lavori stagionali più rilevanti (i pomodori in Capitanata, le angurie salentine). Ma da sempre crocevia di cui il Faro della Palascìa, a Otranto, il punto più a oriente d’Italia, è insieme simbolo, testimonianza, prometeo di un nuovo umanesimo che i suoi studiosi hanno teorizzato negli anni passati e che i suoi abitanti hanno messo in pratica ogni giorno. Ignorare gli “altri” significherebbe creare le condizioni per una nuova Rosarno. Ciò che differenzia la Puglia dalla Calabria e dalla Lombardia, oltre alla ricchezza di certi piatti, sta nell’aver evitato di istituzionalizzare il razzismo e le derive segregazioniste e securitarie. Ne sono esempi la recente approvazione delle norme di accoglienza varate dalla Regione, vittoria di una politica inclusiva, e ne sono esempio le politiche giovanili portate avanti secondo un pensiero semplice, ma devastante: “Siete voi il nostro futuro” , come ci suggerisce Guglielmo Minervini, nessuno spettatore, tutti protagonisti. Rifiutando un concetto stretto di integrazione, porremo attenzione al lessico impiegato, che troppo spesso i media tradiscono nell’obiettività cedendo ad un sensazionalismo pruriginoso (ogni immigrato è un clandestino, il delinquente lo è di più se è un immigrato). Vogliamo parlare di interazione, un concetto ancora lontano dalla società italiana, che è certamente una realtà storicamente multiculturale, ma il passaggio all’interculturalità presuppone una maturazione nel dialogo e nel confronto, come ripetono certi pionieri come Tonio dell’Olio, Franco Cassano e Luigi Perrone, che hanno arricchito il nostro sapere in questa terra. Un piccolo passo per l’uomo un grande passo per l’umanità, quello che sapremo condurre dalla tolleranza verso l’alterità.
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