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La libertà non ha pizzo

Di Norma Ferrara il . Calabria

Periferia nord di Reggio Calabria, patria dei
De Stefano. Un imprenditore si rifiuta di pagare il pizzo. La sua
azienda che produceva materiali d’informatica è stata fatta saltare in
aria. Il titolare di una sanitaria 18 anni fa ha denunciato i boss,
anche  il suo locale è stato distrutto
più volte. A sud di Reggio Calabria il proprietario di una pizzeria è
riuscito, grazie a telecamere e polizia, a fare arrestare i suoi
estorsori. Storie diverse, ciascuna a suo modo, battaglie per la
libertà di impresa in un territorio a sovranità limitata. Storie che in Calabria, nonostante le solitudini e le
difficoltà di questi anni,  sono diventate  il patrimonio civile
del nascente movimento antiracket “Reggioliberareggio, che verrà
presentato oggi a Reggio Calabria alle 17.30, Auditorium San Paolo,
alla presenza di Don Luigi
Ciotti, presidente di Libera.

Più di un anno di lavoro per mettere insieme storie, denunce, persone,
idee. Oltre 50 associazioni coinvolte: 4
associazioni antimafia, tutte le sigle sindacali regionali e nazionali,
20 associazioni, tre movimenti politici di schieramenti diversi, 11 gruppi
ecclesiastici, 9 cooperative sociali che operano sul territorio. Una
rete che non ha precedenti si è riunita, su iniziativa di Libera e con
la collaborazione della Federazione nazionale antiracket, sotto un
unico slogan ” libertà non ha pizzo” con lo scopo di
sostenere imprenditori
e commercianti che hanno avuto il coraggio di denunciare i propri
taglieggiatori ed  incoraggiare la ribellione al giogo mafioso, creando
una rete solidale tra chi non paga o smette di pagare il pizzo. “Per la
prima volta – commenta Don Luigi
Ciotti, presidente di Libera – a Reggio Calabria,
tantissime associazioni diverse insieme dicono No al Pizzo ed al
sopruso della violenza criminale. Un grande movimento culturale, una
campagna per sostenere le vittime del racket che hanno denunciato,
accompagnare la denuncia delle vittime, promuovere il consumo critico e
responsabile, sensibilizzare e informare sull’antiracket, fare
educazione e formazione nelle scuole e nelle università”.

“L’iniziativa
nasce dall’ascolto degli imprenditori costretti a pagare il pizzo e di
quelli che si sono ribellati al racket – racconta Domenico Nasone, referente per Libera a
Reggio
Calabria e animatore di questo percorso. Abbiamo scelto di
ripartire proprio dall’ascolto di tre storie emblematiche di questa
resistenza contro le ‘ndrine e che hanno portato avanti con coraggio
una scelta di libertà”.  Nelle
parole di Nasone, a poche ore dall’inizio di questo percorso, è
possibile  percepire la stanchezza di un lavoro costato fatica ma
soprattutto la gioia di aver messo insieme tutti, ma proprio tutti, in una battaglia
che non ammette assenti o distratti.

“Il probelma del racket in città, come in provincia, c’è da molti anni
– dichiara Domenico Nasone – .
Tutti sapevamo ma nessuno parlava pubblicamente. E in questo lungo
periodo di lavoro abbiamo anche scoperto il perchè .
Dall’analisi portata avanti, infatti, è emerso che su cento imprese, cinquanta
non
pagano il pizzo. Una buona parte
paga e pochissimi no. Purtroppo quel 50% di attività che non paga il
pizzo, abbiamo scoperto in seguito, appartiene, direttamente o tramite prestanome, alla mafia”. “Sono cifre che impressionano, se consideriamo che coinvolgono vari
protagonisti dell’economia locale, dalla  catena di
distribuzione al piccolo commerciante, dalle imprese edili ai
negozianti”. “Questo dato è allarmante  – spiega Nasone – perchè
indica una grande capacità delle ‘ndrine di riciclare i proventi che
derivano da traffici di droga e altra natura, direttamente nelle
attività commerciali che concorrono a muovere l’economia locale”. Non
solo.

In pochi sin ora hanno denunciato. “Un altro aspetto che è emerso da
lavoro sul territorio  – sottolinea Nasone – è che il 50% degli
imprenditori vessati dalla richiesta del pizzo, fa gravare sul costo
delle merci il prezzo “aggiuntivo” che serve per poter pagare il pizzo.
Ovvero: il pizzo lo pagano in realtà i singoli cittadini  che con i
loro acquisti
finiscono per finanziare direttamente le ‘ndrine. “I commercianti –
commenta Nasone –  lo pagano come fosse semplicemente un’altra tassa.
Ad essere penalizzata è l’economia locale: strozzata dal capitale
mafioso e dal rincaro dei prezzi”. Numeri che fanno riflettere sulla
pervasività di un fenomeno difficile da rintracciare e denunciare.
Nasone racconta infatti che  per chi sceglie di uscire allo scoperto il
percorso è ancora difficile e lungo. “Dalle testimonianze delle vitime
del racket emerge che – dichiara Nasone – la
burocrazia, le istituzioni sono ancora lente nell’intervenire
nell’applicazione della legge 44 e in altre fasi della denuncia, 
mentre le mafie sono fin troppo svelte ad agire. Nonostante ciò,
denunciare conviene”. Lo dimostrano tutte le storie positive che
arrivano dalla Sicilia e dalla Campania, terreno di sperimentazione e
lavoro della Federazione nazionale antiracket e del consumo critico di
Addiopizzo. Un impegno comune fra imprenditori e cittadini ha portato
avanti percorsi capaci di capovolgere questo status quo.

Il “laboratorio siciliano” dell’antiracket ha portato con sè una novità importante. Confindustria con il
suo presidente
Ivanhoe Lo Bello ha reso pubblica la nuova linea lo scorso anno: fuori
dall’associazione di categoria chi paga il pizzo. Una posizione
sostenuta anche a livello nazionale. Chiediamo a Nasone qual è la
situazione invece in Calabria. “In Calabria Confindustria ha sposato un
no pubblico al pizzo – risponde Nasone -. Lo ha fatto lanciando una
campagna nazionale che è sembrata lontanta dal radicamento culturale
sul territorio,
elemento fondamentale per costruire un cambiamento tangibile. Alle
associazioni di categoria aderenti a “Reggioliberareggio” abbiamo
infatti chiesto in questi mesi –
come primo atto – di indicarci chi non paga il pizzo fra gli aderenti e  stiamo raccogliendo le informazioni in loro
possesso”.

Veniamo ad oggi. Nel pomeriggio a Reggio Calabria  la presentazione di
questo percorso, presso  Auditorium San Paolo. ” Si tratta di una proposta  amministrativa,
politica e sociale – sottolinea Nasone.  Ad  ogni attivita’ gestita da imprenditori liberi
dal racket sarà dato  un logo di riconoscimento da attaccare in vetrina
quale segno a garanzia della libertà dal pizzo e dalle logiche mafiose.
Abbiamo scelto di consegnarlo simbolicamente a cinque attività: i
tre imprenditori che con coraggio hanno detto di no al pizzo e sono
l’anima di questo percorso. Ad una cooperativa nata per finalità
sociali su un bene confiscato e che in questi mesi rischia di chiudere,
la Rom1995 e a Stefania Grasso,
figlia dell’imprenditore Vincenzo Grasso, ucciso dalle ‘ndrine nel 1989 perchè si era rifiutato
di pagare il pizzo,  che sta lavorando  a Locri per mettere in moto un percorso simile a quello di Reggio
Calabria”.

Da oggi inoltre avrà inizio il lavoro di un osservatorio antiracket,
composto da sette membri, che
periodicamente, individuando vari parametri e con l’ausilio delle forze
dell’ordine,  rintraccerà sul territorio i punti vendita che non sono
collusi con la
mafia e non pagano il pizzo per continuare questo percorso pubblico di
denuncia. Un ruolo importante in questo progetto però spetterà anche ai
cittadini. A loro il compito di sostenere la rete di negozi
“reggioliberareggio” impegnandosi a fare acquisti solo nei
punti vendita che esibiscono il bollino antiracket.  La sfida del
consumo critico lanciata dai ragazzi di Addiopizzo Sicilia sbarca in
Calabria dunque e diventa il vero ponte capace di collegare l’antimafia
sociale contro il pizzo e le mafie.

Per maggiori informazioni www.libera.it

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