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Intimidazioni e condizionamenti
La mano delle mafie sulla Riviera

Di Stefano Fantino il . Liguria

Da
fine 2008 siede sulla poltrona di procuratore capo di San Remo e da
subito si è trovato a confrontarsi con un territorio molto più
aspro di quello che appariva sulla carta. Incendi, attentati e una
presenza criminale che da tempo contraddistingue i luoghi che dalla
città del Festival conducono fino al confine di Ventimiglia. Il
dottor Cavallone si è subito distinto per il suo accorato appello
alla legalità e alla collaborazione tra cittadini, magistrati e
forze dell’ordine, per uscire da un tunnel che da decenni ha
inghiottito la Riviera. Libera Informazione, durante la pausa
pasquale ha fatto un salto in Procura per intervistarlo.


Liguria terra di mafie, non siamo i
primi a scoprirlo, ricordo ancora qualche settimana fa di aver
parlato con il procuratore della Dna Vincenzo Macrì, a margine di
un convegno in cui eravamo relatori, del ruolo cardine del ponente
nel sistema ‘ndranghetistico, da decenni a questa parte. Lei che
sulla poltrona di procuratore di San Remo siede da poco più di un
anno che idea si è fatto?

La presenza della criminalità
organizzata nel Ponente Ligure è storicamente accertata. Noi,
ovviamente, come procura di San Remo non abbiamo competenza per
indagare per reati di criminalità organizzata di tipo mafioso,
perché tale competenza spetta alla Dda di Genova, però sul
territorio ci sono i segnali di questa presenza, segnali
rappresentati da attentati incendiari ripetuti a vari esercizi
commerciali, colpi di pistola esplosi contro amministratori pubblici
e altri episodi, soprattutto durante la recente campagna elettorale,
che fanno pensare a una pressione della criminalità organizzata su
coloro che si impegnano in politica. Storicamente come lei ha detto
la presenza di questo tipo di criminalità risale ai primi
esperimenti di soggiorno obbligato; dalle regioni di origine, dalla
Calabria e dalla Campania, venivano mandati, alcuni soggetti, il più
lontano possibile, pensando, in questo modo, di estirpare il male,
creando invece delle metastasi. Queste persone si sono insediate in
territori fertili, senza competitori diciamo, prendendo il controllo.
Ciò è avvenuto soprattutto per la criminalità organizzata di tipo
calabrese. Tengo a precisare che non bisognare generalizzare:
l’immigrazione calabrese ha rappresentato per la Liguria un grosso
apporto economico, come nel campo della floricoltura. Oggi siamo in
una fase in cui il controllo ormai è stato assunto e si mantengono
le posizioni: non c’è nulla che possa accadere, senza che se ne
debba in qualche modo rispondere ai referenti di queste famiglie
mafiose. Questo durante le attività economiche, quando si deve
aprire un’ attività, quando si deve scendere in politica, questi
attentati ai point elettorali (il caso Morabito, a Camporosso ndi) è
un segno rivelatore di una forma di condizionamento, di
intimidazione.

In questi mesi si è intensificato il
numero di incendi in Riviera: l’incidenza di questi eventi sono
legati al racket? Spesso le vittime si chiudono nel silenzio, che
lei pubblicamente ha invitato ad abbandonare; si ha paura di
denunciare?

Le vittime che non sono solo di origine
calabrese o campana, possono esserlo ma è occasionale la
circostanza, che si tratti di attività estorsiva anche noi lo
riteniamo perché a volte sono ripetute verso gli stessi esercizi
commerciali e le indagini non hanno evidenziato situazioni alle
spalle che possano far pensare, ad esempio, a episodi di truffa ai
danni di assicurazione. Dobbiamo ritenere che sia una pressione sul
territorio per, in qualche modo, ottenere che queste persone si
servano della protezione. Quello che ho notato è l’atteggiamento
purtroppo diffuso, tranne rarissime eccezioni, che è tipico della
realtà meridionale: le vittime non parlano. Nel 99% dei casi dicono
che non hanno la più pallida di idea di cosa possa essere
all’origine dell’atto, dicendo che non hanno mai avuto di che
discutere con qualcuno: un atteggiamento che preclude alla
magistratura e alle forze di polizia di fare piena luce. Gli
strumenti investigativi sono pochi, di queste cose al telefono non si
parla e quindi nemmeno le intercettazioni possono aiutare, è chiaro,
dunque, che senza l’apporto delle vittime l’attività di indagine è
molto ostacolata.

Quando parla di eccezioni a cosa fa
riferimento, al caso Maffodda?

Esatto, verso metà aprile c’è stato
un grave fatto di cronaca a Taggia, un tentato omicidio, il cui
responsabile è stato individuato. Una persona di origine calabrese,
già più volte condannata per gravi reati e anche per associazione
di tipo mafioso. L’arresto a distanza di poche ore è stato reso
possibile dalle testimonianze di svariati cittadini che hanno
descritto la scena, hanno consentito di avere un identikit
dell’individuo, con conseguente ricerca di archivio, elementi di
riscontro e infine arresto. Senza le testimonianze saremmo ancora in
presenza di un attentato commesso da ignoti ai danni di un’altra
persona a sua volta gravata da svariati precedenti, che non ha
parlato. In questo contesto la regola è “noi con poliziotti e
magistrati non parliamo, ci facciamo giustizia da soli”, che è
quella mentalità pericolosissima che se dovesse generalizzarsi
impedirebbe allo Stato di svolgere la sua funzione principale, che è
quella di assicurare il rispetto della legalità.

Il caso di Taggia è frutto di un
contenzioso personale o il movente mafioso è alla base?

Riteniamo che si tratti di un
contenzioso personale, ma che ha le sue radici in fatti antichi,
ovviamente.

Tornando alla situazione generale come
si salda al confine con la presenza di gruppi mafiosi di riferimento
come le ‘ndrine calabresi con gli elementi campani e quali sono i
rapporti, dopo Schengen, con i mafiosi oltre frontiera?

Con la normativa Schengen si è molto
perso il ruolo del territorio di frontiera come rifugio di latitanti
perché ormai possiamo chiedere tranquillamente alla polizia francese
l’arresto provvisorio di persone da noi ricercate e ci viene concesso
in pochissimo tempo. Sta di fatto che il territorio ligure rimane
molto sensibile, proprio per la presenza della frontiera, a un fitto
traffico di sostanze stupefacenti, armi, clandestini e su questo
operano quelle famiglie mafiose storicamente presenti nel Ponente.
Per quanto riguardo l’equilibrio, ovviamente la leadership è ancora
in questo momento nelle mani dei calabresi ma è anche vero che
passato il confine, in costa Azzurra, i personaggi di riferimento
sono di origine campana, per cui vi è un rapporto per cui i
calabresi si appoggiano a questo tipo di realtà criminale.

Recentemente ha disposto una misura di
prevenzione per Antonio Palamara, residente a Ventimiglia,
considerato vicino ai Piromalli di Gioia Tauro. Ci può spiegare chi
è Antonio Palamara?

Il signor Palamara è stato
destinatario di una misura di prevenzione su richiesta della Procura
che dirigo proprio in considerazione dei suoi trascorsi giudiziari,
dato che già nel 2008 era stato attenzionato per gli stessi motivi.
Si tratta di uno dei terreni su cui la Procura di San Remo sta
agendo: limitare il terreno di azione di personaggi ritenuti al
vertice di queste organizzazioni criminali. Il riferimento alla
vicinanza coi Piromalli è vero ma vede, anche a Gioia Tauro, per
quello che so gli equilibri sono cambiati: una volta si parlava della
cosca Molè-Piromalli, oggi dopo l’assassinio di Molè (Rocco Molè,
capobastone ucciso il 1 febbraio 2008 ndi) gli equilibri sono
cambiati e riteniamo che i Piromalli siano alleati della famiglia
Alvaro (attiva a Sinopoli e Cosoleto in provincia di Reggio
Calabria ndi). Su questo ovviamente potrebbe dire di più la
distrettuale di Reggio, ma per quello che ne so per capire quello che
succede in Liguria bisogna cercare di capire quello che succede in
Calabria. C’è una dipendenza stretta tra i locali liguri e le
famiglie di origine calabresi.

Lamentando una mancanza di organico,
così ho letto anche su diversi quotidiani locali , mi viene da
domandare se questo potrebbe rallentare le indagini su questi casi e
su questo tema. Lei sta dando una impronta solida mostrando volontà
di portare avanti questa battaglia, pensa che non sia da molti
(amministratori, istituzioni) considerata una priorità qui nel
Ponente?

La carenza di organico ha sicuramente
degli effetti negativi, tra questi non vi è la sottovalutazione del
problema, che viene attentamente valutato. Il problema vero è che,
in questo momento, la politica sulla giustizia è portata avanti
senza tener conto di quelli che sarebbero i risultati da raggiungere,
in termini di efficienza. E di questo ha la responsabilità chi al
momento governa, anche se trova origine anche in maggioranze
politichediverse. Ci sono tre fattori alla base del problema: uno
psicologico e due di tipo normativo. Il primo è la continua campagna
d’odio contro i magistrati e in particolare i Pm, portata avanti
quotidianamente. In conseguenza di ciò molte persone che fanno i
magistrati spesso optano per la funzione giudicante rispetto a quella
requirente. Dal punto di vista normativo, invece, la possibilità
che il rango del Pm in futuro sia inferiore rispetto al giudice
(separazione delle carriere ndi) potrebbe provocare un calo di
“vocazioni”. Inoltre un alto motivo è quello che si vede i
magistrati di prima nomina impediti a occupare funzioni monocratiche.
Norma non è da me condivisa: da sempre chi vince un concorso è
inviato lì dove c’è bisogno, a ricoprire posti vacanti. In questo
contesto, in cui siamo sempre di meno i problemi che abbiamo
affrontato della criminalità organizzata si scontrano con risorse
risicate, una scopertura del 50%, a malapena facciamo andare avanti
un ufficio, le grosse indagini non si possono fare, non parlo di 416
bis che competono alla Dda di Genova, ma parlo di tutti quei reati
che sono rivelatori dell’esistenza di queste associazioni mafiose.
Parlo degli incendi, delle estorsioni, delle esplosioni di colpi di
arma da fuoco: ovvio che senza fondi e risorse le indagini siano
rallentate.

Per quanti riguarda le esplosioni di
arma da fuoco faceva riferimento al caso Prestileo?

Si, il direttore generale del Comune di
Ventimiglia, Prestileo, nella primavera scorsa si trovò lo sportello
della macchina perforato da sette colpi di proiettili,
presumibilmente sparati con un silenziatore. Certo questo non è un
fatto usuale, comunque lo vogliamo guardare.

E sotto le elezioni anche il point
elettorale di un candidato, a Camporosso, sempre nella zona di Ventimiglia, ha preso fuoco…

Sono state seguite tutte le possibili
piste, e non si è trovata una matrice politica. Spesso si
verificano atti incendiari durante la campagna elettorale in altre
parti d’Italia, il ragazzino col motorino che lancia la molotov e se
ne va. Qui non è accaduto, è stato aperto il point, si è versato
del liquido infiammabile, si è acceso e ce ne si è andati via. Un
modo per dire “noi arriviamo come e quando vogliamo”, sicuramente
un avvertimento. Sappiamo che la zona è sensibile a quei problemi di
cui abbiamo sinora parlato.

Possiamo dire che la ‘ndrangheta è
capace, nel Ponente, di controllare parte del territorio e insidiare
la politica?

Diciamo che le indagini che in questo
momento pendono davanti alla Procura potrebbero portare a rilevare
cose di questo tipo. Quando noi dovessimo trovare elementi faremo
riferimento alla Dda competente. Anche l’avvenimento di Ventimiglia
Alta, con l’aggressione ai curdi, è rivelatrice di un controllo del
territorio, non è una bravata. Il fatto di dire “qui comandiamo
solo noi calabresi” significa sentirsi padroni di un certo
territorio e rivendicarlo. Non voglio dire che queste persone sono
sicuramente appartenenti a famiglie mafiose ma comunque denota, il
fatto, un certo tipo di mentalità.

In chiusura, lei ha fatto spesso
riferimento alla necessità di parlare, denunciare, diciamo che
pubblicamente sta cercando di instillare anche un senso di fiducia in
chi viene a contatto con situazioni delicate. Un altro tipo di
mentalità dunque…

Non possiamo pretendere che i cittadini
diventino eroi, però se stanno sempre zitti e subiscono è evidenti
che magistrati e polizia non hanno molti strumenti. Se non c’è
collaborazione e rivendicazione dei propri diritti, questa volontà
di affrancarsi da questa soggezione, non si va da nessuna parte. È
un qualcosa che deve nascere all’interno delle famiglie,
nell’educazione, nella scuola, un riacquisto di senso di legalità
che non c’è stato finora, oppure si è perso. Quando c’è qualcosa
di molle, il coltello affonda. Bisogna fare resistenza, resistere.

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