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C’era una volta il Tg numero 1

Di Ennio Remondino (da Il Manifesto) il . L'analisi, Lazio



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Storie da un altro mondo. C’era una
volta il potere, i partiti e i governi bramosi di dire sempre la
loro. C’era una volta, come sempre. C’era una volta il giornalismo
radiotelevisivo pubblico vincolato ad una sorta di fiancheggiamento
dei partiti al potere o di quelli ufficialmente ammessi alla
concorrenza per patto costituzionale. Pluralità dispari ma in lenta
crescita, col consolidarsi della democrazia condivisa nel Paese. Prima
del precipizio. C’era una volta un certo ritegno nel connubio tra
politica e giornalismo di servizio pubblico appaltato all’interesse
delle parti politiche. I partiti, del resto, rappresentavano un
interesse vasto e riconosciuto. Interesse semi pubblico, non di
famiglia o di clan. C’era una volta, tanto tempo fa, nel mondo di
questa fiaba, una sorta di accademia del bon ton giornalistico
televisivo.

Certamente un po’ ipocrita, “democristiana”potremmo dire da terrestri,
un’accademia a volte un po’ maligna al suo interno per ambizioni
personali concorrenti, diversa visione politica, padrinati
contrapposti. C’era comunque e sempre la responsabilità di un Tg non
solo “governativo” per appropriazione storicamente
consolidata ma assieme “voce nazionale”, vincolata al
riguardo d’insieme. Oltre a questo c’erano delle regole. Quelle
scritte e quelle orali, quelle sindacali e quelle trasmesse come Dna
dalla storia di una redazione. Regole e decenza, anche per le
parzialità, anche per le carriere predestinate, anche per i favori
imposti dall’esterno. Decenza che filtrava le prevaricazioni
politiche nella scelta dei direttori, nel bilancino farmaceutico
delle cronache politiche, negli spazi e negli incarichi redazionali
ammessi o preclusi. Era innegabilmente il Tg numero 1.

Il quel mondo giornalistico irreale,
frutto di vagheggiamenti senili del narratore, c’erano direttori che
condividevano la linea del governo in carica, ma non prendevano
ordini. Qualche consiglio, a

volte. Partigiani convinti e militanti
che ammettevano e rispettavano l’esistenza di idee alternative.
Giornalisti sollecitati dall’ambizione personale che potevano cedere
al peccato dello sgambetto, di qualche maldicenza, ma non pugnalavano
alle spalle il collega concorrente. C’erano regole, ripeto, e ruoli.
Contrattuali ma non soltanto. Direttori che sapevano di televisione,
ed era la premessa d’obbligo. Vertici televisivi mai comparsi in
video, ed era regola di buon gusto. Vicedirettori, pochi, a filtrare
ogni lancio d’agenzia e ogni virgola scritta per tutte le edizioni
che si succedevano. Redazioni governate con culo di pietra, presenza
costante e puntigliosa verifica. Molta responsabilità condita da un
pizzico di censura precauzionale. C’era il giornalismo di gerarchia,
quello di strada e quello da video. Tre mondi separati, e guai a
sgarrare, per equità redazionale e per buonsenso aziendale. O fai
una cosa o fai l’altra, era la logica che impediva la mostruosità
professionale degli “Assi Pigliatutto”. Allora, un volto,
una voce, un modo di porgere, era non soltanto firma personale ma
anche immagine e credibilità di tutto il Tg. Contenuto erano le voci
e i volti che raccontavano mondi lontani: vetrina di attenzione e di
potenza aziendale. Poi lo spazio

al paese reale, certo, con qualche
sconto sulle contrapposizioni sociali più scomode, ma mai
completamente omesse. Cronaca nera attenta ma educata, mai
pruriginosa, anche se con qualche ipocrisia di troppo. Immagini
adeguate all’ora d’ascolto. E c’era anche un’Azienda che sapeva
imporre ad ogni nuovo arrivato il rispetto di questa liturgia antica.
Un po’ troppo pretesca, come ogni liturgia, ma certamente molto
responsabile.

Poi, narrano alcune fonti, fu il caos.
Nuovo Big Bang a travolgere assieme la politica e tutta la società
del Piccolo Mondo Antico. Televisione compresa. Da troppe sagrestie e
troppi salotti. Degrado progressivo ma accelerato. Come alcune
malattie che, nella mancata cura, trovano forza e velocità per
arrivare rapidamente ad uccidere. In quel Nuovo che avanza la
televisione da mezzo diventa strumento. Per usarla non serve neppure
conoscerla. La devi soltanto possedere ed affidarla in delega.
Contemporaneamente, fine del giornalismo del buon mestiere, del
crescere imparando, del dimostrare giorno per giorno, del percorso
professionale che costruisce il credito per nuovi incarichi.

Si
impone il giornalismo che premia, con l’apparire, l’appartenere e il
compiacere. Quella che ieri era considerata malattia, diventa regola
del Nuovo che avanza. Siano notizie o siano prese di posizione sindacale, ciò che
conta non è più la verità o la coscienza personale ma il
gradimento. Il gradimento da parte di chi comanda. Anche la gerarchia
rovescia la logica della sua autorità: non vale più la dignità del
sapere ma la forza del possedere. Possedere grado, possedere danaro e
benefits, possedere visibilità a compiacere la tua vanità,
possedere incarichi anche se sovrapposti ed incompatibili tra loro.
Io possiedo io sono, è la nuova logica. In questo mondo rovesciato,
chi non possiede non vale. Chi non possiede non vola, a rovesciare il
motto fascista di Balbo. Intanto volano e si moltiplicano gli
incarichi, volano i costi e gli sprechi, volano le violazioni
contrattuali aziendalmente accondiscese con complicità
irresponsabile. Le sole cose a precipitare sono la credibilità,
l’autorevolezza, gli ascolti. In questa fiaba extraterrestre la
navicella pilota degli Assi Pigliatutto naviga arrogante verso il
Buco Nero, il nulla siderale con tutto il Pianeta Azienda condotto al
precipizio. A velocità interstellare.

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