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Delitto Alpi e Hrovatin, un’inchiesta da riaprire

Di Norma Ferrara il . Interviste e persone

Io so. Io so i nomi dei responsabili; i responsabili della strage di Milano, di quella di Brescia e di Bologna. Io so i nomi del gruppo dei potenti, io so tutti questi nomi e i fatti di cui si sono resi colpevoli ma non ho le prove, non ho nemmeno indizi. Io so perché sono uno che cerca di seguire tutto ciò  che succede, di conoscere tutto ciò  che se ne scrive, di immaginare tutto ciò  che non si sa, o che si tace. Io so perché  sono uno che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero e coerente quadro che ristabilisce la logica laddove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero.  Tutto ciò fa parte del mio mestiere, dell’istinto del mio mestiere. (Pasolini in Ilaria Alpi – “Il più crudele dei giorni”)

Con queste parole si è aperta la XV° Giornata della Memoria e dell’Impegno per le vittime delle mafie a Milano. Nel ricordo di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. Un duplice omicidio ancora oggia avvolto nel mistero, nonostante i lavori di una Commissione parlamentare d’inchiesta e un processo di condanna per l’unico imputato, Hashi Hassan,  in via definitiva a 26 anni di reclusione. Con Mariangela Gritta Grainer, componente della Commissione d’inchiesta sulla cooperazione italiana e consultente della Commissione sul caso Alpi, ripercorriamo i pezzi mancanti di questa storia e di un’inchiesta, che ancora oggi, non si riesce a svolgere.

Il principale accusatore di Hashi Omar Hassan, l’unico condannato per l’uccisione della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore tv, Miran Hrovatin,  rischia di finire sotto processo a Roma per il reato di calunnia. Il gip Maurizio Silvestri, ha respinto la richiesta  di archiviazione e dispone per, Ali Rage Ahmed, 45 anni, detto ‘Gelle’, l’imputazione coatta.  C’è la possibilità che questo nuovo provvedimento riapra  il caso Alpi – Hrovatin?

Questa richiesta di archiviazione respinta potrebbe, anzi dovrebbe, riaprire l’inchiesta sul caso Alpi – Hrovatin. Per una serie di ragioni. Ali Rage Hamed, detto Gelle, testimone chiave dell’accusa, nei confronti di Hashi Omar Hassan, non ha mai riconosciuto Hashi durante il processo perchè non era in aula. Hassan fu portato in Italia in condizioni particolari, negli anni in cui il contingente italiano fu accusato di aver commesso violenze su cittadini/e somali/e. Questa vicenda si intrecciò, fra l’altro, anche con queste indagini già ampiamente complesse. Come unica prova della presenza di Hassan fu ritenuta valida una dichiarazione fatta alla Digos di Roma, nella quale Ali Rage, detto Gelle, dichiarava di conoscere uno dei sette che avevano partecipato al duplce omicidio. Tutto questo accade fra luglio e dicembre del ’98.  La questione è complessa: Hassan viene in Italia perchè dice di aver subito delle violenze, durante l’operazione militare. Il processo verrà fatto nel ’99 e l’imputato sarà assolto in primo grado. Dopo il ricorso, da parte delle procura di Roma, Hassan è volontariamente rientrato in Italia per farsi processare e questa volta, nonostante non ci fossero prove, l’uomo è stato condannato in secondo grado e poi in via definitiva in Cassazione, nel 2003, per l’omicidio Alpi – Hrovatin. Il fatto che adesso si respinga l’archiviazione di questo caso, oggi in mano al pm Giancarlo Amato, è un fatto importante, perchè questo significa che non si ritengono sufficienti le motivazioni che l’hanno portato in carcere. Ci sono registrazioni di intercettazioni telefoniche, testimoni ed altro, in cui si prova infatti il contrario, ovvero che Hassan non era presente al momento dell’agguato. Insomma,  sembra si sia trattato di un capro espiatorio, come più volte abbiamo detto in questi anni.

Dopo 16 anni dal duplice delitto, a suo avviso, ci sono ancora le condizioni per rimettere in piedi l’inchiesta ed arrivare ad una verità?

Dopo 16 anni è tutto più difficile, tuttavia lo ritengo ampiamente possibile. A parte le persone che sono decedute, alcune in circostanze misteriose, la documentazione sul duplice omicidio c’è tutta. Sono ancora in vita le persone che erano presenti al momento dell’agguato o che sono giunte nei minuti successivi. Molti di loro hanno già testimoniato presso la  Commissione d’inchiesta e sono disponibili anche tutte le documentazioni raccolte da altre procure, Udine, Roma, Latina, per citarne solo alcune. Credo. dunque, che si debbano mettere insieme tutti questi pezzi. Anche quelli mancanti. Mancano videocassette girate da Miran e i taccuini di Ilaria, ma si tratta di prove che sono state rubate già nelle ore successive al delitto, nel 1994.  Proprio nei nastri che sono scomparsi (su 20 videocassette, soltanto 6 sono giunte all’attenzione degli inquirenti, ndr) era contenuta l’ultima intervista di Ilaria al sultano di Bosaaso sul traffico di rifiuti e sulle navi della Shifco. Un colloquio durato, secondo lo stesso sultano che ha testimoniato presso la Commissione d’inchiesta, più di tre ore. Di quel “girato” però ad oggi abbiamo soltanto 20 minuti, in una videocassetta che presenta vistosi tagli e interruzioni.  Dove sono finite le altre cassette? Non lo sappiamo. I bagagli partirono da Mogadiscio con i sigilli e arrivarono senza; qualcuno all’epoca ebbe tempo e modo di manomettere queste prove. Insomma, dopo 16 anni, ci sono, a mio avviso, tutti gli elementi,  per rimettere in piedi questa inchiesta a partire dalle testimonianze precise, raccolte in questi anni, alle nuove deposizioni di pentiti e alle documentazioni che, se incrociate fra loro, sono più che indizi, sono prove concrete. Quello che serve oggi è uno  scatto di volontà per esercitare questa giustizia che porti alla verità giuiziaria sui fatti.

Proprio nell’ intervista al sultano di Bosaaso, come d’altronde in molte inchieste su traffici di armi e rifiuti tossici, ricorrono due nomi, quelllo dell’ingegner Omar Mugne e quella di Giancarlo Marocchino, faccendiere italiano in Somalia. Come  e perchè si incrociarono gli affari di questi due imprenditori con le inchieste di Ilaria e Miran?

Le vicende legate agli affari dei due imprenditori si incrociarono nelle inchieste dei giornalisti, soprattutto negli ultimi tempi. L’ingegner Omar Mugne era il responsabile della Shifco, una compagnia Italo – Somala che gestiva alcune navi regala te dall’Italia alla Somalia, nel periodo in cui in Somalia c’era ancora il Governo guidato da Siad Barre. Si trattava, si scoprì anni dopo, di pescherecci coinvolti nel traffico di armi  (in particolare della nave 21Oktober II  abbiamo la certezza che venisse utilizzata per questi traffici). Quando in Somalia scoppiò la guerra civile, Mugne gestì le navi in privato, facendone imbarcazioni atte a trasportare  materiale illecito, armi e rifiuti.  Un’operazione che coinvolse faccendieri somali e italiani e che godette di ampia copertura.
Giancarlo Marocchino, invece, è un imprenditore”molto chiacchierato”, in Somalia sin dal 1984, era giunto in quel paese e aveva costruito la sua fortuna facendo l’imprenditore, fornendo servizi di ogni tipo, ma non sempre in maniera lecita e trasparente. Marocchino era diventato, negli anni, un personaggio chiave ed impegnato sul versante dei trasporti aerei e per mare. Marocchino gestiva tutti gli aspetti che riguardavano la presenza di italiani in Somalia, era punto di riferimento per il contingente come per i giornalisti. Anche il giorno dell’agguato Marocchino fu il primo a giungere sul posto e si incaricò di trasportare i corpi da una macchi
na all’alltra verso il porto. La cosa strana e che due personaggi conosciuti da tutti in Somalia  e strategici per i trasporti e le comunicazioni fra i due paesi, continuano a dichiarare di non conoscersi. Questo è semplicemente impossibile.   E’ oramai noto che l’Italia in quegli anni, come molti altri paesi, fornisse le armi ai clan che si contrapponevano durante la guerra civile, nel post Siad Barre. Lo scambio che vedeva al centro i due personaggi, fra l’altro, era: armi in cambio di soldi e di rifiuti che in Italia non si potevano smaltire. Ci sono testimonianze concrete su questi traffici che hanno doppiamente penalizzato il popolo somalo, morti e malattie causate dai rifiuti e clan armati dai paesi esteri. Il rapporto Marocchino – Mugne è legato proprio ai carichi di nave. Di due di queste imbarcazioni ci sono testimonianze concrete, che arrivavano a Mogadiscio cariche di rifiuti e da li sono state fatte arrivare a Bosaaso.

Al centro dell’ultima inchiesta di Ilaria Alpi proprio la strada Garowe- Bosaaso e i rifiuti tossici probabilmente sotterrati li ….

Esatto.  Bosaaso è stato il luogo in cui si sono concentrate le ultime indagini giornalistiche di Ilaria. Ci sono varie testimonianze, ad oggi, che narrano di questo traffico di rifiuti e della sua collocazione in quell’area. Fra  le varie, ne voglio ricordare una,  quella di un ingegnere ex dipendente di una delle società che aveva costruito un tratto della Garowe – Bosaaso, il dottor Brofferio. La testimonianza di Brofferio, che racconta del coinvolgimento di Marocchino in questi smaltimenti illeciti nell’area di Bosaaso, è stata messa a confronto proprio con quella dell’imprenditore ma quest’ultimo ha negato tutta la vicenda. Nella Commissione d’inchiesta, guidata dall’avvocato Carlo Taormina, questa vicenda ed altre sono state prese in considerazione ma è stato alzato un polverone, non chiedendo le cose giuste alle persone che potrebbero raccontare come stanno le cose.

Giancarlo Marocchino è stato collaboratore della Commissione d’inchiesta che doveva indagare proprio su queste ed altre vicende, questo ha un pò “inquinato” i lavori?

Marocchino è diventato una figura che non si può che chiamare “collaboratore” . Durante la sua audizione,  infatti, il colloquio venne interrotto improvvisamente e, il giorno successivo, il presidente Taormina annunciò  che Marocchino “si era reso disponibile ad una collaborazione per far giungere in Italia l’automobile in cui vennero uccisi Ilaria e Miran”. E’ abbastanza singolare che solo dopo 15 anni Marocchino abbia scelto di collaborare e far rientrare questa macchina. C’è stata in sostanza una attenzione della Commissione, presidente e maggioranza, nel tutelare l’imprenditore, nel puntare a scagionarlo. Al punto che c’è stata una persona,  che ancora adesso è sotto protezione, che è stata portata in Italia proprio da  Marocchino ed e è una delle persone (come dimostrano le immagini televisive) che quel giorno a Mogadiscio hanno estratto i corpi delle macchine. Quando è stato interrogato dalla Commissione, lui ha risposto di essere venuto in Italia per “scagionare” Marocchino. L’ha ammesso esplicitamente. Ci sono molti interrogativi su Marocchino, ma al di là di questo, a mio avviso, non ha detto tutto quello che sa. Alcune testimonianze addirittura dicono che fosse presente al momento dell’agguato. Si è contraddetto mille volte, dalla prima intervista rilasciata poco dopo la morte dei due giornalisti, in cui ha detto: ” si vede che sono andati in posti in cui non dovevano andare, non è stata una rapina, nè un tentato sequestro… una questione politica”, a tutte le altre. Insomma, si tratta di una figura quantomeno imbarazzante. Gli interni del pick – up Toyota, infine, fatto rientrare in Italia su sue indicazioni, non corrispondono a quelle dell’auto che viene ripresa nelle immagini girate dalla Abc sul luogo del delitto quel giorno. I colori del rivestimento interno sono differenti ma cosa ancora più strana, ci sono dei fori che non c’erano prima,  I fori, guarda caso, servono a dimostrare, tramite una perizia balistica (della quale non ho in alcun modo motivo di dubitare) che i due sarebbero stati vittime di un solo proiettile che avrebbe ucciso, nella sparatoria a distanza, prima Miran e poi Ilaria. Sarebbe importante capire su che materiali, foto e altri riscontri, è stata effettuata la perizia dato che le analisi sul Dna del sangue ritrovato nell’auto, è si di una donna, ma non corrisponde a quello di Ilaria.

Ripercorrendo il caso Alpi, fra i tanti misteri, le stranezze e i ritardi, colpiscono le fasi delle indagini e le conclusioni della Commissione d’inchiesta, guidata Taormina. Si è parlato a lungo di depistaggi, qual è stato il ruolo ufficiale della poltica e degli apparati istituzionali in queste indagini?

Una cosa è certa, se le istituzioni della politica e della magistratura avessero fatto il loro dovere, sino in fondo, non sarebbero passati 16 anni. Nessuno ha verità precostituite, ma non appena si arrivava vicini alle piste d’indagine sui traffici illeciti, accade sempre qualcosa. Tutto si ferma, si cerca di depistare. Anche il caso di Hashi Hassan, a mio avviso, è stato uno dei più grossi depistaggi; collegare i fatti delle violenze di Restor Hope con il lavoro di Ilaria Alpi, anche. La Commissione d’inchiesta ha fatto anche di più. Nei primi mesi di lavoro ha raccolto, giustamente, tutti i materiali presenti nelle varie procure d’Italia, sul caso Alpi. Tutto materiale ancora consultabile, anche se nessuno di noi è riuscito a visionarlo interamente, a causa dell’immensa mole. Si tratta infatti di documenti che non riguardano solo le procure,ma anche l’Unosom, i lavori di Intelligence, carabinieri, polizia, le istituzioni. Di questo materiale però, nella relazione finale di maggioranza, si è tenuto conto soltanto delle cose che andavano nella direzione della morte per “casualità”. Tutte le prove che  confermavano l'”esecuzione” sono state messe da parte. Quella macchina, ad esempio, è stata adottata a sostenere una tesi, non da parte della polizia che ha fatto la perizia, chiaramente, ma da chi ha fornito queste prove  a tali fini. E dunque, ad un certo punto, sono state fatte “carte false”.

Quali sono gli elementi che non sono stati considerati?

Molti. Hanno voluto far passare questo duplice omicidio, anche, come un’azione contro giornlisti italiani. La  macchina  del commando killer però, come testimoniano altri giornalisti italiani, era posizionata davanti hotel Hamana, già ore prima del delitto  e i killer non entrarono in azione davanti al passaggio di altri giornalisti. Il commando aspettava Miran e Ilaria.  Non solo. I due giornalisti rientravano, con un sospetto ritardo di alcuni giorni da Bosaaso, ma nessuno li aveva avvertiti che c’era stato il “coprifuoco” per i giornalisti, che proprio quel giorno avevano lasciato Mogadiscio. E che dire dell’informativa della Digos di Udine e  del Sismi? lo stesso Marocchino ha dovuto confermare la vicenda: alcune sere prima, durante una festa, aveva annunciato che c’era stata una riunione di capi clan che aveva deciso di organizzare un attentato verso giornalisti italiani.  Questi sono solo alcuni fatti eclatanti, ma tutto il materiale raccolto sin qui, che prova come questo fosse un omicidio mirato, è stato considerato “cartastraccia” dalla Commissione che ha addirittura parlato di un “complotto”, di una teoria, messa in piedi da giornalisti, genitori e  qualche parlamentare, che “cercavano pubblicità”. Anzichè cercare la verità si è indagato su chi la stava cercando:  c’è stata  ad esempio una perquisizione a casa dei genitori della giornalista. Il tutto aggravato, al termine, da quelle dichiarazioni del presidente Taormina, che parlano di due bra
vi giornalisti, eroi del giornalismo, ma uccisi per caso, erano in vacanza…


Perchè quell’inchiesta è ancora oggi a distanza di 16 anni cosi scomoda?

Quando ci sono traffici illeciti e di armi, di rifiuti tossici e radiottivi solo organizzazioni criminali possono organizzare i trasporti. C’è un legame strettissimo tra questi traffici e le varie mafie, in particolare, come sta venendo fuori nell’inchiesta sulle “navi dei veleni”, la ‘ndrangheta. Queste mafie, purtroppo, possono accrescere il loro potere, in tutti i territori e in tutti i mercati, godendo di coperture, a volte di complicità, di una parte dello Stato, delle istituzioni e della politica. Qui il nocciolo duro. Per questo la morte dei due giornalisti, oltrechè rappresentare verità e giustizia, diventa anche importante per conoscere e bloccare questi traffici che continuano ancora oggi.

Alcune di queste indagini sono tornate di stretta attualità a seguito delle dichiarazioni del pentito della ‘ndrangheta Francesco Fonti. Da anni si cercano tracce di questi traffici nel mare della Calabria, a seguito dell’affondamento e dello spiaggiamento, rispettivamente della nave Rigel (1987) e della Jolly Rosso (1990). Indagini separate che portano a collagare, come ricordava lei, mafie e traffico di rifiuti tossici. In queste ultime, salta fuori anche il nome dell’ingegner Giorgio Comerio. Che ruolo ha o ha avuto in questi traffici? pare che a casa sua venne ritrovato, persino, un documento che porta dritto alla morte di Ilaria…

Si, le indagini portate avanti dal procuratore  Francesco Neri e dal capitano Natale De Grazia (morto in circostanze misteriose, ndr) sulla Jolly Rosso, portano anche ad una perquisizione proprio nella villa dell’imprenditore Giorgio Comerio, durante la quale si  trovano materiali interessanti. Comerio era un ingegnere che si era occupato di studiare un nuovo metodo per lo “smaltimento”, diciamo cosi, dei rifiuti tossici. Aveva provato a vendere la sua idea in proprio ad alcuni paesi, fra i quali anche l’Italia e la Somalia. Si trattava di una tecnica che prevedeva l’affondamento dei rifiuti, tramite siluri, in fondo al mare. Nella sua villa vengono ritrovate mappe sui possibili siti di affondamento, e stranamente anche una cartella sulla Somalia. In quella, dichiarano gli inquirenti, anche una documento nel quale si evince che Comerio fosse in affari con Ali Mahdi, un capo fazione  durante guerra civile e poi, infine, una copia del certificato di morte della giornalista Ilaria Alpi, quello redatto sulla nave Garibaldi e del quale non si avevano più notizie. La Commissione Taormina inviò i suoi collaboratori per verificare la presenza di questi documenti, ma non li trovarono. La stessa cosa accadde, alla procura di Roma, dove il procuratore Neri, dichiara di aver inviato, per competenza nelle indagini sul caso Alpi, i documenti. Questo certificato esiste, ma non si sa dove si trovi.   Ancora oggi, qualcuno ha sottratto, depistato e fatto “carte false” .

Maggiori info sul Caso Alpi  – Hrovatin su Osservatorio Ilaria Alpiclicca qui

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