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Il prete anticamorra

Di Luca Kocci (Il Manifesto.it) il . Campania

Il 19 marzo 1994 i casalesi alzano il tiro e
ammazzano il giovane parroco di Casal di Principe che ogni giorno
invita gli altri preti e i fedeli a ribellarsi. Dopo la morte, la
denigrazione a mezzo stampa: «Don Diana a letto con due donne», «Don
Diana era un camorrista». Monsignor Nogaro ora ne chiede la
beatificazione: «Rappresenta il riscatto della Chiesa meridionale che
non ha voluto combattere la malavita»
.

Una Fiat Uno rossa si
ferma davanti alla parrocchia di San Nicola, a Casal di Principe, poco
dopo le sette del mattino. Due uomini scendono, entrano in chiesa, si
dirigono verso la sacrestia. «Chi è don Peppe?», chiedono. Poi sparano,
quattro colpi di pistola e il parroco, don Giuseppe Diana, cade,
ucciso. È il 19 marzo 1994, Casal di Principe è il campo di battaglia
su cui i De Falco e gli Schiavone si combattono per conquistare
l’egemonia sul clan dei casalesi, e don Diana è un giovane parroco di
36 anni che parla, scrive, denuncia, incoraggia i fedeli e gli altri
preti ad uscire dalla sacrestia, ad alzare la voce e a lottare contro
il sistema della camorra per il riscatto sociale dei loro territori.
Per questo, 16 anni fa, viene ammazzato.

È
la seconda volta in sei mesi che le mafie uccidono un prete che non
abbassa la testa: a settembre era toccato a don Pino Puglisi, a
Palermo, del quartiere Brancaccio dei fratelli Graviano. Adesso tocca
al parroco casertano. Colpevoli, entrambi, di aver abbandonato il
recinto del sacro, di aver preso la parola rompendo il muro di omertà e
la cappa di rassegnazione, di aver organizzato la resistenza e la
speranza. «Non sono un prete anticamorra», diceva don Diana poco prima
di essere ucciso, ma «un uomo di Chiesa che si limita a lottare,
accanto alla gente che abita questi luoghi, nel tentativo di affermare
quei diritti negati che il malgoverno e la camorra hanno sempre negato».

Nato
a Casal di Principe il 4 luglio 1958, Diana entra giovanissimo – più
per poter continuare a studiare che per vocazione – nel seminario di
Aversa, dove frequenta la scuola media e il liceo. Poi, dopo una
brevissima parentesi romana, si iscrive alla Facoltà teologica
meridionale di Napoli, retta dai gesuiti, al tempo guidati dallo
spagnolo progressista Pedro Arrupe, e lì, grazie ad alcuni professori,
respira l’aria della teologia della Liberazione e la predisposizione
alla lettura critica della realtà sociale. Sono gli anni a cavallo del
1980, quando in Salvador viene ucciso dagli squadroni della morte del
regime militare, mentre sta celebrando la messa, Oscar Romero, il
“vescovo fatto popolo” di San Salvador: un destino che sarà anche
quello di don Diana.

Nel marzo del 1982 viene ordinato sacerdote e
torna a Casal di Principe, dove inizia a seguire gli scout dell’Agesci.
Pochi mesi dopo, un avvenimento che segnerà profondamente la vita di
don Diana: l’episcopato della Campania, il 29 giugno 1982, pubblica il
documento Per amore del mio popolo non tacerò, una riflessione e un
atto d’accusa contro la camorra, un appello ai credenti a partecipare
attivamente alla vita civile, un’autocritica affinché la Chiesa vinca
paure e convenienze e si schieri contro la criminalità organizzata. È
la prima volta che una Conferenza episcopale, benché regionale,
pronuncia la parola “camorra”, infrangendo una mentalità e una prassi
che la faceva considerare estranea alle preoccupazioni e alla prassi
pastorale.

La nota dei vescovi campani resterà lettera morta per
tanti, compresa la Cei che solo nel 1989 pubblicherà un documento
ufficiale dedicato al mezzogiorno (Sviluppo nella solidarietà. Chiesa
italiana e Mezzogiorno) senza tuttavia mai scrivere “mafia” o
“camorra”. Non per don Diana però che, nominato viceparroco a Casal di
Principe, alla pastorale ordinaria affianca un forte impegno sociale
sul territorio che gli varrà l’etichetta di “prete anticamorra” e le
accuse da una parte del clero e dei cittadini di essere un “prete
comunista”, oltre che le intimidazioni della criminalità: una notte
dell’autunno 1987, all’indomani di un convegno e di una marcia
antiviolenza organizzati insieme ad altri due parroci di Casal di
Principe, vengono sparati dei colpi di pistola alla finestra di casa
sua. Che però non fermano don Diana il quale anzi, insieme ad altri due
preti di Casal di Principe, don Broccoletti e don Aversano, e ad alcuni
giovani e gruppi di base, dà vita ad un comitato permanente
anticamorra. «È una seconda conversione provocata dal dolore e dalla
violenza che lo circondavano», spiega Rosario Giuè, autore dell’unica
biografia pubblicata di don Diana (Il costo della memoria, Paoline,
2007). «Si è trovato dentro una situazione dura e non si è girato
dall’altra parte, la vita reale lo ha cambiato più di ogni altra cosa.
Si è speso nel tentativo di fare prendere coscienza alla comunità
dell’aversano che la camorra è una dittatura e voleva che tutta la
Chiesa campana si coinvolgesse in un processo di liberazione e di
profezia».

Nel 1989 viene nominato parroco di San Nicola, a Larino,
uno dei quartieri più difficili di Casale, dove dà il via ad una
piccola rivoluzione: il consiglio pastorale viene democraticamente
eletto fra tutti i fedeli, le feste patronali esterne vengono abolite –
anche per evitare sprechi di denaro e inquinamenti camorristici – viene
aperto un centro di accoglienza per gli immigrati. Intanto la guerra
fra gli Schiavone e i De Falco si intensifica, anche in seguito alla
scomparsa dei vecchi boss Antonio Bardellino e Mario Iovine: si
moltiplicano i morti ammazzati, anche innocenti (un giovane testimone
di Geova ucciso per sbaglio durante una sparatoria in strada fra
camorristi nell’estate del 1991), i De Falco organizzano un corteo con
decine di uomini armati e a volto scoperto che sfilano per le vie del
paese fin sotto le finestre dei nemici, emerge il potere di Francesco
Schiavone “Sandokan”. In questa situazione don Diana riprende
l’iniziativa e nel Natale del 1991 convince i parroci e i preti della
foranìa di Casal di Principe a firmare e a diffondere nelle parrocchie
un documento che condanna la camorra, denuncia della latitanza dello
Stato e critica il silenzio della Chiesa. «La camorra oggi è una forma
di terrorismo che incute paura e impone le sue leggi», scrivono i
preti. «Il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito
l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra
riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni
periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi».
La Chiesa deve recuperare il suo «ruolo profetico affinché gli
strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella
capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia».

Il
testo ha una grande risonanza, e Casal di Principe finisce sotto i
riflettori: aumenta la polizia, arrivano gli arresti, il Consiglio
comunale viene sciolto per infiltrazioni mafiose e rimane commissariato
per due anni e mezzo, fino al novembre 1993, quando le elezioni
amministrative vengono vinte da una lista civica con una forte presenza
del volontariato parrocchiale che tuttavia avrà vita breve.
Il
confine è stato passato. Bisogna dare un segnale, così come hanno fatto
a Palermo i Graviano, ordinando l’omicidio di don Puglisi. A Casal di
Principe si colpisce don Giuseppe Diana, nel giorno del suo onomastico,
in chiesa. E si tenta di ucciderlo anche da morto, infangando il suo
nome, distruggendo la sua immagine per demolire la sua azione di
risveglio delle coscienze. “Don Diana a letto con due donne”, “Don
Diana era un camorrista”, titolano il Corriere di Caserta e altri
giornali locali, imboccati dai soliti professionisti della
disinformazione. Poi i tribunali diranno come sono andate le cose: il
prete è stato ucciso per il suo impegno antimafia. E condanneranno
esecutori materiali e mandante, Nunzio De Falco, difeso dall’avvocato
berlusconiano Gaetano Pecorella, oggi presidente della Commissione
parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei
rifiuti, che ancora la scorsa estate metteva in dubbio la verità
giudiziaria storica.
«Gli assassini di don Diana sono stati
condannati ma restano impuniti i mandanti morali dell’omicidio», dice
Sergio Tanzarella, docente di Storia della Chiesa e vicepresidente
della Fondazione don Giuseppe Diana. «I mandanti di allora e di oggi
sono gli stessi. Sono i sostenitori in giacca e cravatta di una
mentalità camorristica che alimenta e sostiene la camorra che dicono a
parole di combattere quando non ne negano l’esistenza. Sono quelli che
isolarono di fatto don Diana facendolo diventare un comodo bersaglio.
Ancora oggi occupano le istituzioni e dirigono l’economia. Decine di
migliaia di manifesti con le loro facce sorridenti presidiano con
arroganza il territorio in vista delle elezioni.

E oggi come allora
molti di loro saranno eletti in nome di un dominio assoluto verniciato
da democrazia».
E monsignor Raffale Nogaro, vescovo emerito di
Caserta assai vicino a don Diana (e presidente della Fondazione),
chiede la beatificazione del prete “martire” della camorra: «Giuseppe
Diana è il riscatto delle nostre terre sempre oppresse, è l’anima
pulita delle nostre Chiese meridionali» che «non hanno voluto
combattere il male della camorra» ma «si sono rassegnate a forme di
convivenza e di opportunismo». Ora «è giunto il momento di proclamarlo
beato» perché «la Chiesa non potrà mai assumere il volto della purezza
evangelica se non presenta i suoi martiri della libertà contro le
presenze massacranti della camorra».

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