A Castelvetrano la prima trattativa tra Stato e mafia
5 luglio 1950. Cortile di via Mannone a Castelvetrano. Tra storia e
leggenda dei patti tra Stato e mafia, è qui in questo luogo che se ne
consumò certamente uno, il primo del dopoguerra. E’ in questo cortile
che venne trovato morto, ucciso, il bandito di Montelepre Salvatore
Giuliano. Così almeno raccontarono ai cronisti dell’epoca, al termine
di un conflitto a fuoco con i carabinieri. Sparatoria inesistente.
Giornalisti e fotografi videro il corpo di Giuliano steso a terra,
torace e volto in giù, la canottiera insanguinata. Il temibile bandito
non faceva più male a nessuno, lo Stato si presentava vittorioso. Ma
era stata la mafia a «vendere» il bandito.
Franco Grasso fu uno dei cronisti che era presente sul luogo. Vincenzo
Vasile in uno scritto lo ha ricordato: Grasso negli anni ’50 lavorava
per la «Voce della Sicilia», fu lui a «sbugiardare» la cronaca
dell’uccisione del bandito Giuliano, «il primo falso di Stato
dell’Italia repubblicana» scrisse Vasile. Per terra, in quel cortile,
non c’era sangue mentre ciò che Giuliano indossava ne fosse intriso.
Giuliano fu ucciso da Gaspare Pisciotta a casa dell’«avvocaticchio»
Gregorio De Maria, questi, ancora vivo, quasi centenario, ricorda che
sentendo sparare in casa corse verso la camera dove Giuliano incrociò
Pisciotta che fuggiva via e che gli disse, «avvocato qui sparano».
Pisciotta era arrivato lì con Giuseppe Marotta, commerciante di olio e
vino, il cosiddetto «’ntiso» del paese, suo fratello Nino aveva portato
Giuliano a casa dell’avvocato De Maria, la vigilia del Natale del 1949.
«Marotta – ha raccontato l’avvocaticchio, che oggi ha 99 anni – bussa
alla porta della mia casa. Io vado ad aprire e m’accorgo che non è
solo. Ti ho portato due pellegrini – mi dice – puoi ospitarli per
qualche notte?… Mi sentii di morire. Avevo riconosciuto uno dei due,
era Salvatore Giuliano».
Sessant’anni dopo il nome di Nino Marotta riemerge. Ad 83 anni è il più
anziano dei mafiosi in attività. È tra i 18 arrestati dell’operazione
«Golem II». Dal 1950 ad oggi ne ha fatta di carriera, è passato dalla
«banda» Giuliano fino a diventare il «consigliori» dei Messina Denaro,
del «patriarca» Francesco prima e di suo figlio Matteo oggi. Il
riemergere del nome di «don» Nino Marotta riporta a uno dei primi
grandi misteri del dopoguerra, dietro il delitto Giuliano la trama di
una «trattativa» con pezzi dello Stato e con l’ispettorato
antibanditismo, il ruolo di un capitano dei carabinieri, Antonio
Perenze, la falsa ricostruzione dei fatti. De Maria fu assolto al
processo di Viterbo contro la banda Giuliano: secondo i giudici agì in
stato di necessità. La sua vita però, ha confidato ai giornalisti, «è
stata capovolta», non potè diventare notaio, come progettava, e finì
per insegnare prima educazione fisica e poi inglese. Di tanto in tanto
racconta che incontrava Nino Marotta (Giuseppe morì nel 2004), facendo
l’unica cosa saggia che racconta sa di dover fare e cioè «salutarlo per
primo».
Sessant’anni dopo nei «pizzini» di Matteo Messina Denaro si coglie
l’ombra di una trattativa ancora tra mafia e Stato, come ai tempi di
Giuliano. «Golem II» inoltre svela come il Sisde, l’ex servizio segreto
civile, tentò di entrare in contatto con Messina Denaro (per la sua
cattura si dirà), gli uomini del prefetto Mori si erano rivolti ad un
ex sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino e questo fino al 2006,
quando la Procura di Palermo pare fino ad allora non informata viene
avvisata di quella corrispondenza tra Alessio (Messina Denaro) e
Svetonio (Vaccarino).
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