Gli impedimenti della giustizia
La pronuncia in settimana della prima
commissione del Csm sulle esternazioni del premier Silvio Berlusconi
sulla magistratura ha segnato un’altra tappa nel difficile dialogo
tra potere esecutivo e potere giudiziario, dove anche il capo dello
Stato è intervenuto per moderare i toni e richiamare il premier. Il
cui processo milanese è ancora sotto i riflettori dal momento che
non è stato riconosciuto dai giudici milanesi come legittimo
impedimento il CdM convocato da Berlusconi nel giorno dell’udienza
prevista. L’occasione è quella giusta per ripercorrere le ultime
evoluzioni di questi giorni e dare uno sguardo di insieme sul tema
giustizia. Libera Informazione ha scelto di farlo intervistando
Giovanni Salvi sostituto procuratore generale presso la corte di
Cassazione, già sostituto procuratore a Roma, impegnato sul tema del
terrorismo, e nella Dda.
La presa di posizione della prima
Commissione del Csm dei giorni scorsi segna l’ennesimo passo
nell’intricato rapporto tra il potere giudiziario e l’esecutivo,
nella fattispecie il premier, le cui dichiarazioni avevano dato luogo
alla risposta dell’organo di autovigilanza dei magistrati, cosa pensa
di questa risoluzione?
La presa di posizione del Csm segue di
pochi giorni la lettera del presidente della Repubblica che aveva
richiamato le parti in causa a rispettare i ruoli reciproci. Credo
che il Consiglio superiore abbia dato esito a questa richiesta da
parte di Napolitano, perché ormai sono molti anni che a ogni
pronunziamento giudiziario, che quindi non è una iniziativa politica
rivolta nei confronti il governo ma un accertamento giurisdizionale
verso un soggetto, si risponde attaccando sia i magistrati che hanno
assunto questa decisione sia i magistrati nel suo complesso. Questo
introduce un elemento di rottura all’interno del sistema dei poteri:
il potere giurisdizionale è, per definizione, deputato ad accertare
fatti che costituisco reato e l’uguaglianza dei cittadini davanti
alla legge, che da questa funzione discende, è un presidio
fondamentale per la democrazia.
Il fatto che il capo dello Stato,
presidente del Csm, si sia pronunciato implica una situazione di
gravità che verrà riconosciuta come tale dal Governo?
Ormai è molto tempo che questa storia
va avanti, quindi non credo che si possa pensare che essa sia
destinata a chiudersi rapidamente. Purtroppo la situazione è questa
e con questa dobbiamo fare i conti: io non credo che ci sia uno
scontro tra politica e giustizia. Penso che questo sia sbagliato,
porre la questione in questi termini, intendo. Non c’è una giustizia
che ha uno scontro con la politica: la giustizia non si muove come un
potere unico, per sua definizione è un potere diffuso, questo vuol
dire che non c’è un centro unico che dirige tutti i giudici e tutti
i pubblici ministeri. Per fortuna o purtroppo, a seconda dei punti di
vista, ogni magistrato nell’ambito di una certa organizzazione
decide, sulla base degli elementi che ha, e con la sua testa. Questa
è proprio la caratteristica innata del sistema giudiziario nel quale
la gerarchia funziona nel senso che vi è un controllo da parte di un
giudice superiore su quello che ha fatto il giudice precedente, il
sistema, dunque, delle impugnazioni. Questo e solo questo, è il
meccanismo gerarchico interno. Per il resto non è che c’è una
giustizia che si muove tutta intera e tutta insieme nei confronti del
potere politico; quindi porre la questione nei termini di uno scontro
tra politica e giustizia è sbagliato. Ci sono degli accertamenti
penali che devono essere compiuti che riguardano un cittadino che non
è diverso dagli altri cittadini e vi è chi non intende
assoggettarsi a questa regola di carattere generale che dovrebbe
vincolare tutti quanti. Questo in sintesi e purtroppo non riguarda
solo il presidente del consiglio, perché, purtroppo, è diventato un
metodo abituale: chiunque viene sottoposto a una giurisdizione in
termini che non gli aggradano, reagisce in questa maniera.
Di stretta attualità il tema del
“legittimo impedimento” per il quale si stanno studiando delle
apposito modifiche all’Art. 420-ter del codice di procedura penale,
limitatamente al caso del premier e per la durata di mesi diciotto.
Una lampante incostituzionalità di fondo, non trova?
A mio parere si, il problema è
questo: la Corte Costituzionale farà in tempo e in che maniera a
decidere su questa questione. Perché, vede, anche quello che è
successo recentemente a Milano e che ha creato tante polemiche,
ovvero il fatto che il tribunale abbia ritenuto non legittimo
l’impedimento, va inquadrato nel contesto entro cui questo è
avvenuto. All’interno di un calendario concordato rispetto al quale
vi è stata una modifica successiva. Se vi fosse davvero la volontà
di bilanciare due interessi diversi, questo sarebbe molto facile. Il
presidente del consiglio potrebbe concordare un calendario serio, che
preveda tutta le udienze che sono necessarie per concludere
rapidamente il processo, e, qualora dovessero intervenire degli
eventi successivi tali da modificare questa situazione, penso che il
tribunale si adeguerebbe. Diverso è invece quando il legittimo
impedimento diventa uno strumento per evitare il processo, anche
perché va visto poi quante volte, non riconosciuto il legittimo
impedimento, quante volte il presidente del Consiglio si presenta in
udienza. Ovviamente è un suo diritto andare o non andare, ma esiste
anche un fair play che prevede anche una leale collaborazione tra
istituzioni: che il presidente del Consiglio debba collaborare con la
Corte per raggiungere l’obiettivo comune che credo sia anche
nell’interesse del premier, di avere una sentenza che lo riconosca,
se lo è, innocente.
Il pianete giustizia è stato più
volte al centro dell’operato del Governo, con quali esiti rispetto ai
reali problemi presenti nelle aule di tribunale, nello specifico
riguardante l’efficienza del sistema?
Ormai da tanti anni parliamo di questi
problemi e i nodi delle problematiche giudiziarie sono abbastanza
noti. Per rimanere a quelli processuali vi sono certamente gli
effetti perversi che un sistema di impugnazioni che è rimasto del
vecchio tipo, collegato cioè a un processo di tipo inquisitorio, pur
dopo la riforma nel 1989 in senso accusatorio, ecco questa é una
superfetazione delle impugnazioni che determina grandissimi ritardi.
Tanto più che se si collega con il termine di prescrizione breve,
questo stimola le impugnazioni inutili per poter raggiungere il
risultato della prescrizione. Che diventa un risultato da
conseguire, non l’effetto del ritardo: questo è un meccanismo che
andrebbe spezzato. L’unica cosa che è stata fatta su questo tema è
stata quella di eliminare l’appello del pubblico ministero, cioè
l’unica cosa che non c’entrava con questo ritardo, senza modificare
il sistema nel suo complesso. Io, tra l’altro, ero favorevole nel
2001/2002 all’eliminazione dell’appello del pm, ma nell’ambito di una
riforma complessiva del sistema: invece è rimasto solo questo
elemento. Questo è indice della difficoltà di parlare di discutere
di giustizia in maniera serena, perché ogni proposta viene presa in
ciò che può essere strumentalmente utile per raggiungere un
obiettivo. Ormai questi temi sono ampiamente battuti, sono state
fatte tante proposte, tutte messe da parte: finché rimane questo uso
strumentale delle garanzie processuali è difficile uscire da questo
processo. Lei prima citava il cosiddetto “processo breve” che
vuol dire la cosiddetta “prescrizione processuale”: ora anche
questo è un istituto che io non riterrei particolarmente strano. Ma
il senso della “prescrizione processuale” che esiste in altri
ordinamenti è esattamente il contrario di quello che viene attuato
qui. Non è la morte del processo nonostante lo Stato si impegni, con
tutte le sue forze, a raggiungere il risultato, ma è una sanzione
per l’inattività dello Stato. Quando cioè lo Stato, benché ne
abbia la possibilità, rimane fermo al palo e mantenendo in “standby”
il cittadino imputato. Questo mix diventa esplosivo: la prescrizione
processuale dovrebbe funzionare al contrario, ovvero allontanare
quella sostanziale tutte le volte in cui lo Stato si dimostra attivo,
tutte le volte che non è fermo per danneggiare l’imputato.
Non è dunque facile discutere sui
problemi della giustizia, io sono molto pessimista, devo dire, perché
finché non vi sarà la consapevolezza che questo è un enorme
problema per i cittadini e lo si continuerà invece a vedere come una
cosa che riguarda i politici, io credo che non ne usciremo, perché
ogni riforma sarà fatta con l’idea di ottenere un beneficio per uno
piuttosto che per l’altro. E questo è deleterio per la tutela dei
diritti dei cittadini.
Cambiamo decisamente argomento e
spostiamoci sul tema della corruzione. Due settimana fa in una
intervista concessami, il professor Franco Cazzola, parlando del
fenomeno ha detto che è un fenomeno tuttora molto imponente e che il
fenomeno Tangentopoli non ha, in realtà, condizionato politica e
opinione pubblica quanto si pensava avrebbe fatto, cosa ne pensa?
In termini di effettività statistica è
difficile dirlo. La percezione che penso ciascuno di noi ha è che
non vi sia stata una modificazione della diffusione della corruzione.
Quello che è venuto fuori da questi ultimi procedimenti è che forse
stanno cambiando le caratteristiche di questo fenomeno. Stanno
diventando sempre più collegate con questo “affarismo”
generalizzato, con questo traffico di influenze reciproche che rende
difficile individuare la contro prestazione, rende forse più
difficoltoso l’accertamento giudiziario, ma che ha un effetto
profondamente negativo sulla correttezza dei rapporti pubblici. Mi
spiego con un esempio: sono talmente tanti gli intrecci consolidati
tra un sistema di imprese e un sistema di soggetti istituzionali che
gli scambi reciproci sono di interessi, “tu hai un appalto qui e io
ho un appalto là”, “tu fai il direttore generale e io
l’imprenditore”. IN quella che è stata definita una gelatina si
disperde il rapporto che noi chiamiamo sinallagmatico, cioè quella
contro prestazione che viene data in cambio della costruzione, perché
tutto viene immerso in questo clima di affarismo. E questo è molto
preoccupante per il funzionamento dei meccanismi della democrazia.
Perché tutto questo se fosse vero si rifletterebbe anche sui
meccanismi di formazione della stessa volontà popolare perché, lo
vediamo nelle regioni meridionali, dove lo scambio di influenze
determina molto spesso anche l’orientamento elettorale.
Su questo tema pare che ugualmente ai
rapporti tra corruttori e corrotti, anche quelli tra politica, mafie
e finanza ormai siano coesi e ben poco distinguibili. Una prassi
magari vecchia che assume però nuove tinte. Nel caso di Di Girolamo
si farebbe riferimento a un politico che è direttamente un elemento
delle ‘ndrine non una persona influenzabile…
Non sono in grado di valutare se vi sia
una effettiva trasformazione del rapporto tra mafia e politica.
Certamente se così fosse si confermerebbe quel concetto che fu
elaborato negli anni Ottanta e Novanta, circa il fatto che è il
crimine mafioso, il capomafia, colui che veramente dispone del
potere, rispetto al quale il politico si pone in un rapporto di
servizio e quindi non è il vero terzo livello, ma il terzo livello
sono proprio i mafiosi stessi.
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