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San Cataldo e la faida dei “tabutari”

Di Rosario Cauchi il . Calabria

Diego Calì, da tutti, a San Cataldo e nel resto del comprensorio, conosciuto come Dino, ha tutte le caratteristiche, anche fisiche, di un “tabutaro”, ovvero di chi, per vivere, si occupa dei defunti, tanto da gestire, anche per il tramite dei due figli, Giuseppe e Luca, tre diverse agenzie di pompe funebri, in via Babbaurra n. 99, via Roma n. 192 e via Don Bosco n. 81. Del resto a San Cataldo, ventitremila abitanti, nella zona nord della provincia di Caltanissetta, la morte e tutto l’indotto da essa generato è un affare monopolizzato dalla sola famiglia Calì: un’entità parentale, però, da sempre lacerata da rivalità ed invidie tutte connesse ad un’attività economica che difficilmente presenta momenti di flessione.

Dino, a detta degli investigatori che lo hanno arrestato venerdì scorso, aveva un unico obiettivo: dominare il mercato locale, tutto imperniato su scaltrezza e capacità di relazione, soprattutto con gli addetti all’obitorio e gli infermieri dell’ospedale “Maddalena Raimondi”, una soffiata su un imminente decesso può valere oro, a San Cataldo e non solo. Ma la concorrenza interna al medesimo albero genealogico non è mai mancata, talmente accesa da trasformare una “normale” competizione di mercato in un bagno di sangue.

Leonardo Messina, tra i primi collaboratori di giustizia della famiglia di San Cataldo, lo aveva già  sottolineato nel 1992, “attenzione ai “tabutari” e a quello che possono fare”. Non a caso Luigi Calì, fratello di Dino, e Salvatore Calì, cugino dell’arrestato, uccisi rispettivamente nel 1984 e nel 2008, gestivano alcune agenzie di onoranze funebri, al pari dei fratelli Luigi, Gabriele e Stefano Mosca, quest’ultimo vittima in Dicembre di un agguato che solo per una casualità, legata anche alla disattenzione dei componenti del gruppo di fuoco, non lo ha accomunato alla sorte toccata ai due parenti caduti.

Ma può un semplice “tabutaro”  divenire artefice di un simile meccanismo, dominato da volontà  di profitto e sangue? La risposta negativa è  quantomai ovvia: Diego Calì, in base alle risultanze d’indagine, poteva tranquillamente disporre di un’ampia manovalanza armata; fattore che lega, inestricabilmente, il suo arresto all’indagine, “Nuovo Mandamento”, orchestrata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Caltanissetta e avviata proprio durante i primi giorni del 2010.

L’operatore economico, infatti, non nascondeva in alcun modo i legami d’amicizia con Cosimo Di Forte, leader di un gruppo criminale destinato a dominare la zona nord della provincia nissena, servendosi di piazze come San Cataldo e Sommatino, nonché da sempre affascinato dal modello mafioso dei gelesi. L’organizzazione azzerata dalle forze dell’ordine avrebbe agito, seminando anche cadaveri,  proprio sull’asse territoriale che unisce San Cataldo a Sommatino, paese nel quale la parte dei padroni spettava a Gioacchino e Salvatore Mastrosimone: all’indomani degli arresti immediatamente disposti a collaborare con i magistrati che seguono i filoni d’indagine.

Proprio Salvatore Mastrosimone, nipote del boss Pasquale, ucciso nel 1990 a Sommatino, avrebbe ucciso  Salvatore Calì e partecipato all’agguato predisposto ai danni di Stefano Mosca: soggetti che davano fastidio al nuovo clan e creavano problemi agli affari di imprenditori amici. Dino Calì, anche se allo stato attuale ha ricevuto un provvedimento restrittivo esclusivamente con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, dovrebbe costituire l’eminenza grigia che, in base alle proprie esigenze, utilizzava i componenti del “nuovo mandamento” al fine di acquisire nuove fette di mercato.

Ci sarebbe, insomma, lui dietro agli agguati ai danni di Stefano Mosca e Salvatore Calì e agli attentati incendiari che hanno interessato anche le ambulanze in dotazione al locale nosocomio. La cosca guidata da Cosimo Di Forte avrebbe, in questo caso, operato dietro commissione, sempre pronta a dare un segnale di forte presenza e a mettersi in evidenza: bastava pagare.

Le rivelazioni dei Mastrosimone, dal carcere, e quelle dei coniugi di Salvatore Calì, hanno certamente ampliato la visuale di osservazione degli investigatori, tanto da indurli a procedere all’arresto di Dino. Un eventuale ritardo avrebbe potuto cagionare un’ennesima perdita; tra gli obiettivi individuati da Diego Calì un posto di rilievo spettava a Cataldo Calì, fratello di Salvatore, anch’esso operante nel settore delle onoranze funebri: le armi, peraltro, non mancavano, come testimoniato dai ritrovamenti di Gennaio, all’interno di un casolare di proprietà della famiglia Mastrosimone, e di venerdì, sotto un vecchio passaggio ferroviario collocato, in periodo fascista, proprio nel territorio di San Cataldo.

L’attività esplicata, dunque, dovrebbe chiudere il cerchio intorno ai responsabili del perenne “incendio” nisseno. I “tabutari” di San Cataldo, intanto, riorganizzano il mercato, tra invidie e pericolose velleità di controllo.  

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