Colombia e Italia a confronto
Massacrati il 21 febbraio
2005. Otto civili innocenti, tra loro tre bambini. Un’intera famiglia.
Quest’anno si commemora in quinto anniversario del massacro della
Comunità di Pace di San Josè de Apartadò, in Colombia, compiuta dai
membri della XVII Brigata dell’esercito e dai paramilitari del Bloque
Eroes de Tolovà. Un crimine purtroppo ancora impunito, che allunga
la lista delle vittime innocenti della guerra mai dichiarata che da
più di cinquant’anni insanguina il paese latinoamericano. Perché
una strage così efferata? Perché non sono stati perseguiti i colpevoli?
Tanti interrogativi
e numerosi dubbi che saranno affrontati lunedì nel corso della
cerimonia di commemorazione delle vittime del massacro, organizzata
dalla Rete Italiana di Solidarietà – Colombia Vive, dalla
Fondazione Internazionale Lelio Basso e da Libera. “Italia e Colombia
a confronto. Tra democrazia, mafiosità e cittadinanza” è il titolo
del convegno. «Il massacro rientra nella strategia dell’esercito
di far tacere i processi di costruzione di pace dal basso», denuncia
Carla Mariani di Colombia Vive. Una folle strategia che punta terrorizzare
i cittadini con l’obiettivo di imporre il controllo sociale da parte
del Governo. Vittime del potere, poco importa se innocenti e, come nel
caso della Comunità di San Josè de Apartadò, pacifisti e disarmati.
In tutta la Colombia
ci sono più di cinquanta Comunità di Pace che, negli anni
hanno dovuto affrontare gli attacchi e le violenze delle forze governative.
Attentati, minacce, stigmatizzazioni pubbliche, istigazione alla violenza,
politiche di indebolimento sociale anche sottili. Il tutto per sbarazzarsi
delle Comunità e liberare terreni per lo sfruttamento delle grandi
imprese multinazionali.
Quello che si sta verificando
in Colombia è un grande gioco di potere, politico ma soprattutto
economico. Il modello di sviluppo che il presidente Uribe intende impiantare
nel paese non è altro che un sistema di oppressione e soppressione
dei diritti dei colombiani. A cui bisogna rispondere con una tenace
politica culturale che dia sostanza al valore dei diritti umani.
«San Josè de Apartadò
– sottolinea Simona Fraudatario della Fondazione Basso – è l’esempio
emblematico del clima di violenza che si respira in Colombia, ma anche
dell’impunità che regna». Un’impunità istituzionalizzata. L’impegno
culturale viene richiamato anche da Tonio Dell’Olio che con Libera
sta mettendo in piedi una rete di associazioni in tutto il Sud America,
impegnata sulla tutela dei diritti e sulla battaglia contro mafie, illegalità
e corruzione. «La società civile colombiana – dichiara Dell’Olio
– è molto impegnata nella battaglia per il rispetto dei diritti umani.
Tuttavia stenta a prendere consapevolezza della minaccia del narcotraffico».
«Il narcotraffico – aggiunge – è come un midollo spinale infettato
che influenza tutti gli organi dello Stato. Muove una tale massa di
denaro che è capace di condizionare ogni aspetto della vita economica
di un paese, dall’agricoltura alla borsa».
L’obiettivo culturale
che Libera cerca di portare avanti, proprio come in Italia, è quello
di abbattere nell’immaginario collettivo l’idea del mafioso, del
narcotrafficante, come modello e punto di riferimento per i giovani.
Il know-how italiano è molto significativo. Se è vero che l’Italia
ha le mafie più antiche, strutturate e combattive, è anche vero che
vanta un movimento antimafia con una lunga e fruttuosa storia.
Mafie e illegalità,
corruzione e impunità, sembra proprio di rivedere in filigrana la deriva,
anche se più accentuata, che sta attanagliando l’Italia. Una
storia, quella colombiana, su cui pesa la duplice minaccia del libero
mercato e del narcotraffico. Lo spiega molto dettagliatamente Emanuel
Rozental, attivista colombiano dei diritti umani. «Non sono indigeno
ma sono stato adottato da una comunità indigena. Le 93 comunità indigene
presenti in Colombia hanno adottato un Minga», ovvero una pratica collettiva
che ha portato ad un lavoro congiunto di resistenza sociale e comunitaria
di rilevante spessore. «Abbiamo individuato cinque punti cardine –
illustra Rozental – che mettono in evidenzia il “modello” Colombia
pensato da Uribe. Un modello fortemente caratterizzato dalle commistioni
tra multinazionali e crimine organizzato». Il primo punto riguarda
il progetto globale di libero mercato. «Tutto ciò che esiste viene
trasformato in merce per fare soldi – aggiunge Rozental – ciò che
si produce, tuttavia, si trasforma in spazzatura». Il secondo punto
sottolinea come le leggi in Colombia siano fatte per far arricchire
le multinazionali. Il terzo si concentra sulla pratica del terrore.
Nel Paese sudamericano si uccide per cacciare le gente dai terreni appetibili
alle multinazionali. E ad uccidere è o Stato, lo stesso che, come recita
il quarto punto, ha degli obblighi verso il suo popolo, indipendentemente
dal governo che lo guida. Nel quinto ed ultimo punto le comunità indigene
sottolineano che non vogliono essere oggetto di compassione, ma attori
del proprio destino.
<>Un intreccio legame
che sta schiacciando la Colombia. Le multinazionali e i narcotrafficanti
sono due facce della stessa medaglia, entrambi agiscono nell’illegalità
con l’obiettivo di diventare egemoni nello Stato. Per capire questa
profonda commistione Rozental racconta di un giornalista che intervistò
Pablo Escobar, il narcotrafficante più famoso e idolatrato del paese,
a cui chiese se si ritenesse un criminale. La risposta fu drammaticamente
disarmante: «non sono un criminale, sono un imprenditore». Imprenditore
di morte, non peggiore di quanti non commerciando droga opprimono un
popolo intero.
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