Operazione Nerone: si incrina il muro del sostegno a Matteo Messina Denaro
Sono diverse le sfaccettature che al di là dei reati mafiosi messi a segno emergono dall’operazione antimafia «Nerone» condotta nella Valle del Belice dai Carabinieri di Trapani. Quell’ambientale posta a casa di un mafioso agli arresti domiciliari, Vincenzo Funari di Gibellina, ha fatto ascoltare agli investigatori molte cose interessanti. La “quotidianità” mafiosa di un piccolo gruppo svela il sistema.
Cosa nostra è in difficoltà ma non demorde. Gli uomini d’onore sono quelli di sempre, come appunto Vincenzo Funari o come il marsalese Giuseppe Barraco che decenni fa era stato «posato» ma che ora per i tanti tasselli dell’organizzazione rimasti vuoti era tornato all’opera. Le intercettazioni poi consegnano un dato preciso, la «presenza» nel territorio del boss latitante Matteo Messina Denaro. Presenza svelata da un altro degli otto arrestati, Vincenzo Onorio, produttore caseario di Gibellina, che come riferisce il pentito palermitano Emanuele Andronico a lui si è rivolto chiedendo un «favore», ammazzare due persone, dicendo di agire per ordine del capo mafia latitante. Dovevano essere uccisi Pasquale Zummo, “Pasqualone” soprannominato, e Nicolò Fontana, tutti e due spesso lavorano insieme, proprio per questo legame di amicizia chissà perchè dovevano essere eliminati, delitti che per fortuna non vennero compiuti: Onorio ripete il nome di Messina Denaro quando invece vengono ordinate e messe a segno due intimidazioni, attentati incendiari, uno è quello di una villa a Gibellina, e secondo la ricostruzione fornita pare essere l’attentato subito nel 2004 da un consigliere comunale di Gibellina, Pietro Barbiera, oggi presidente del Consiglio comunale.
Il boss dà fastidio. Ma c’è un altro dato, la «presenza» di Messina Denaro sembra dare fastidio ai boss, e se è davvero così è per la prima volta in tanti anni di indagini che si coglie «nervosismo» delle cosche trapanesi per la latitanza del boss: è Furnari, ancora intercettato, a parlare in questa maniera, “fino a che c’è iddu in giro beddu tempo un cinn’è”, «fino a che c’è questo in giro bel tempo non ce ne sarà per nessuno», che pare essere una lagnanza per la massiccia presenza investigativa nel territorio usata per cercare il latitante e che però si traduce anche col fatto che gli «affiliati» si sentono, e lo dicono, «il fiato sul collo».
Le imprese pagano ancora. L’indagine «Nerone» consegna ancora altro: le imprese che pagano continuano a pagare e qualche timida reazione. C’è ancora chi accetta di esaudire la richiesta di «pizzo», tranne in un caso a Calatafimi, dove a rifiutare l’invito a pagare mosso da Giuseppe Gennaro, altro arrestato, di professione imprenditore, ma trovato a vivere in una stalla tra le bestie, fu l’impresa Ferrara, quella che fa riferimento all’attuale sindaco di Calatafimi Nicolò e al fratello, Rosario, che è presidente di Ance il sindacato edili di Confindustria. E proprio Confindustria Trapani con un comunicato ha voluto ribadire che l’invito «è sempre più quello di non cedere al ricatto, di ribellarsi e soprattutto di denunciare».
Tra le estorsioni portate a termine quelle ai danni della sala Paradise di Marsala, 6 mila euro, anzi c’è di più, sembra che da decenni la regola che vige nel marsalese è quella che una volta l’anno le sale di trattenimento debbano versare 12 milioni di lire alla mafia, ora che c’è l’euro appunto 6 mila euro. E se non erano estorsioni c’era pure compreso tra le finalità mafiose anche il «lavoro» del recupero crediti, ancora Onorio sarebbe andato fino in Veneto per risolvere una controversia tra gli (ignari) proprietari di una nota pasticceria palermitana, «la Cubana» con un certo Antonino Sciuto, minacciato dapprima per telefono dicendogli che «c’erano quattro spazzapagghiari» che volevano conoscerlo.
Il contenuto dell’ordinanza. Otto richieste di arresto e otto misure cautelari disposte. Il gip del Tribunale di Palermo ha accolto ciò che i magistrati della Dda avevano chiesto. A finire in manette le persone che si erano rimesse in movimento per conto di Cosa nostra trapanese. E cioè Giovan Battista Agate, di Mazara, 68 anni, fratello del ben più noto Mariano Agate, Giuseppe Barraco, marsalese, 73, Vincenzo Funari, 77, Gibellina, Giuseppe Gennaro, di Calatafimi, 43, Melchiorre Perrone, originario di Castelvetrano ma residente a Gibellina, 46, Vincenzo Salvatore Onorio, di Gibellina, 56, Antonino Rallo, marsalese, 58 anni, detenuto, Vincenzo Vito Rallo, marsalese, 50 anni. Oltre alle otto misure cautelari, il gip Morosini ha emesso 20 avvisi di garanzia e altrettanti contestuali ordini di perquisizione. Il blitz è scattato all’alba di martedì ed ha visto impegnati circa 100 carabinieri che hanno operato a Gibellina, Mazara, Marsala, Calatafimi ed Avellino. Gli arrestati sono a vario titolo ritenuti responsabili di associazione mafiosa, estorsione aggravata, tentata estorsione aggravata. L’hanno chiamata operazione «Nerone» proprio per i diversi danneggiamenti, attentati incendiari, che sono stati censiti e monitorati nel corso dell’inchiesta, sia tentati che portati a termine, mafiosi che agivano come l’imperatore Nerone, l’autore dell’incendio di Roma in epoca classica. A coordinare le indagini, condotte sul campo in particolare dai militari della Compagnia di Castelvetrano assieme ai loro colleghi del nucleo operativo, diretti dai capitani Cicognani, Fanara e Parasiliti, sono stati il procuratore aggiunto della Dda Teresa Principato e il pm Pierangelo Padova. Resta forte, questo emerge sopratutto dall’inchiesta, l’interesse di Cosa nostra per gli appalti e le attività commerciali, i tentativi anche riusciti di imporre alle imprese la manodopera individuata dai boss, l’intervento nella compravendita di terreni.
L’indagine «Nerone» ha preso spunto da quella denominata «Oriente» che risale al maggio del 2005. Allora in manette finì anche Vincenzo Funari, al quale il giudice applicò gli arresti domiciliari. Grazie ad una serie di intercettazioni ambientali e telefoniche disposte presso l’abitazione di Funari, i carabinieri hanno cominciato ad apprendere dell’attività dell’organizzazione. Funari sebbene fosse ai domiciliari «riceveva» tranquillamente «ospiti»che provenivano anche da Marsala, per mettere a punto le strategie criminali. È grazie alle intercettazioni che i carabinieri hanno potuto scoprire il ruolo di alcuni incensurati come Melchiorre Perrone e Vincenzo Salvatore Onorio.
Il censimento delle imprese. Melchiorre Perrone e Giuseppe Gennaro muovendosi da «insospettabili» erano quelli che, secondo i magistrati antimafia ed i carabinieri che li intercettavano e li pedinavano, si davano molto da fare per individuare le imprese da «estorcere». Perrone e Gennaro avrebbero curato una sorta di «censimento» delle imprese impegnate nell’esecuzione di appalti nel territorio del Belice, e prima di agire, di «colpire» quelle «migliori», era a Funari che si rivolgevano, sottoponendo l’elenco per stabilire da chi andare a chiedere il «pizzo». In alcuni casi Melchiorre Perrone è stato intercettato mentre chiedeva il permesso a Funari per commettere dei danneggiamenti a carico delle imprese «recalcitranti», danneggiamenti poi effettivamente portati a termine. Ad andare a trovare Funari era anche il marsalese Giuseppe Barraco. Argomento di discussione ancora e sempre le estorsioni. Addirittura due imprenditori erano stati presi di mira e avrebbero dovuto corrispondere una somma all’interno della compravendita di un terreno. Solo che questo terreno, 16 ettari, si trovava in territorio di Mazara, in contrada Inchiappara, per cui sentito Funari, Barraco attraverso un soggetto arrivò a contattare Giovan Battista Agate perchè fornisse il suo assenso. Aga
te si sarebbe adoperato per «dividere» il pizzo tra Barraco ed i fratelli Rallo, Nino e Vito Vincenzo.
I cavalli ammazzati. Una indagine scattata dopo che a “Pasqualone” Zummo (fratello di Lorenzo ex capogruppo di Forza Italia al Consiglio comunale di Gibellina) nel 2004 gli uccisero, dando fuoco alla stalla, tre cavalli che teneva a Monreale. Lui denunciò l’accaduto sostenendo che non capiva chi e perchè lo avesse fatto, ma fuori dalla caserma dell’Arma andò a cercare due «uomini d’onore», Giuseppe Ragona e Vincenzo Funari. Le intercettazioni subito avviate cominciarono a «scaricare» sugli investigatori tantissime «notizie». La prima quella che l’organizzazione mafiosa è in difficoltà, «non ci sono più i picciotti di una volta» lamenta Funari che discorrendo con chi andava a trovarlo spesso non faceva altro che ricordare i tempi andati, facendo anche un «ripasso» delle «regole» dell’onorata società, anzi ristabilendo queste regole, prima fra tutta quella di parlare di certe cose solo con i «punciuti». Il tentativo di correre ai ripari dopo le azioni giudiziarie risultate penetranti contro Cosa Nostra. A casa Funari spesso andava Giuseppe Barraco, e l’attivismo, mafioso, di questi dà un’altra conferma. Messina Denaro proprio in un pizzino mandato a Provenzano che gli chiedeva notizie sulla mafia marsalese, lamentava che lì avevano arrestato a tutti e si sarebbero portati via pure le sedie, Barraco, del quale avevano parlato pentiti come Scavuzzo e Concetto, sebbene posato dunque per coprire i «vuoti» sarebbe tornato a fare il mafioso. Mancando tanti «picciotti» Funari addirittura aveva deciso di mettere alla prova un suo nipote.
Il col. Barbano. «Sono tutti segnali – dice il comandante provinciale dell’Arma col. Giampiero Barbano – positivi e negativi nello stesso tempo. Positivo è il fatto che le cosche si trovino in affanno, non perché non ve ne siano, ma perché è difficile trovarne di fidati. L’aspetto negativo è segnato dalla scoperta della pianificazione di alcuni omicidi, il che significa che la pax mafiosa potrebbe essere rotta». Il comandante provinciale dei carabinieri di Trapani si riferisce alla scoperta “fame di uomini” che ha la mafia trapanese, manca la giovane manovalanza, la necessità di ripristinare mentalità e ambientazioni, la mafia diventata impresa si è allargata e troppo aperta, permettendo di rendere vulnerabile l’organizzazione. Zoccolo duro resta comunque l’omertà.
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