Il silenzio che fa male
La prima cosa che senti camminando a L’Aquila è ancora il silenzio. Ancora, dopo quasi un anno, il silenzio aquilano ti colpisce lo stomaco e ti brucia nelle vene perché non è un silenzio sano, quello delle valli e dei monti innevati, il silenzio della semplicità e della pace invernale, della cordialità dei paesini abruzzesi. È un silenzio che fa male perché non è giusto: c’è qualcosa di profondamente sbagliato, irregolare e forzato in questo silenzio senza quiete, fatto di mortificazione, perdita, voci ammutolite e ricordi attoniti, linee spezzate e cerchi interrotti. È un silenzio che provoca dolore agli occhi perché non proviene da nessuna parte, se non dalla miseria dell’umanità.
Tra queste strade deserte, dove l’alba e il tramonto si somigliano come lo spirito di un bambino e quello di un anziano, il tempo si è fermato e anche dove si scorge qualcosa che appare vita, in realtà sono solo ricordi: “Vedi? Lassù abitava Carlo” sussurra una vecchietta col bastone a suo marito, che le risponde “Sì, qua invece abitava Luciano”. Tutto intorno, finestre spalancate e piccioni che si sono autoproclamati re tanti mesi fa, e che nessuno è mai venuto a spodestare. Tutto intorno voragini sui tetti e sull’asfalto, gocce che cadono ritmicamente dalle fontanelle e semafori bloccati sul giallo lampeggiante. Tutto intorno silenzio. Un silenzio marcio.
A passeggiare a L’Aquila ti sembra di sfogliare i necrologi di un giornale che nessuno legge più. I pochi che ogni tanto possono permettersi il lusso di camminare nella loro città fanno la conta dei propri drammi, personali e collettivi. Eppure è ascoltando i mattoni e l’eco dei propri passi che si sente lo strazio più grande: ora che l’emergenza è finita e la maggior parte degli aquilani è andata via, è negli edifici e nelle strade che si conserva l’essenza di questa tragedia. L’Aquila non esiste più. Via Castello, via Zara, Piazza San Bernardino, viale Benedetto Croce, viale Gran Sasso. Sono tutti nomi di luoghi che oggi si possono raggiungere, ma che hanno perso la propria fisionomia. Gli edifici hanno croste sulle pareti, i marciapiedi mostrano fratture profonde e la storica solennità di questa città è andata via senza lasciare traccia.
Nemmeno i cani randagi si sentono a loro agio, spaesati in un centro disabitato e stravolto. Piazza Battaglione Alpini, con la sua Fontana Luminosa, è tornata un poco alla normalità, con l’edicola ed il bar da poco riaperti, ma i gruppetti di persone che si formano per chiacchierare e leggere il giornale hanno nei visi le stesse espressioni di spaesamento e spossatezza che vedevo dieci mesi fa nelle tendopoli. Infine via Strinella, che da passerella per Collemaggio è diventata una corsia triste, lastricata dai segni del terremoto, che sembra quasi essere stata spostata nel bel mezzo del nulla, un viale anonimo su un pianeta lontano.
Le prime cose che ti sorprendono dentro L’Aquila che non esiste più sono le ultime cose che noteresti in una città normale. Le cassette della posta vuote e arrugginite, qualcuna con lettere indirizzate a nessuno; gatti soli e piccioni sui divani, porte che non portano da nessuna parte, voci lontane che arrivano da case fantasma; tetti rattoppati con teloni neri di plastica grossa, e poi sbarre, divieti, neve che non rallegra, macerie mai raccolte, lavori di puntellamento, cartelli con indicazioni fuorvianti.
Nella zona aperta, cioè nelle periferie e nelle parti subito attorno al centro storico, è cambiato ben poco dal 6 aprile 2009. Quello che vedi è ancora una comunità disgregata che ha perso completamente il diritto di gestire la propria città: scortati da Esercito, Polizia e Protezione Civile come se fossero un popolo di criminali agli arresti domiciliari. Quello che vedi è ancora tanta distruzione e nessuna ricostruzione. Quello che vedi è una società completamente divisa, che ha dimenticato come si comunica gli uni con gli altri, come ci si mobilita, o anche semplicemente come ci si rintraccia quando gli indirizzi non hanno più valore. Quello che vedi sono persone anziane rassegnate a vivere così la vita che gli resta, perché anche se prima o poi L’Aquila rinascerà, loro non faranno in tempo a vederla.
Mentre ti fai largo in tutto questo con il peso di un anno sulla coscienza, mentre metti un passo dietro l’altro e ti muovi senza però andare avanti realmente, incontrare qualcuno della tua stessa specie, qualcuno che non sia un gatto o un piccione, è ancora come assistere a un piccolo miracolo. Ma un miracolo molto più grande è accaduto ieri, il 14 febbraio: proprio nel giorno degli innamorati, gli aquilani si sono riuniti al limite della zona rossa per riconquistare il cuore della propria città, con amore incondizionato e immenso.
C’erano ragazze e ragazzi, bambini, anziani, c’erano donne e uomini di ogni età. Da quando è uscita fuori l’intercettazione dei due imprenditori che il 6 aprile scherzavano sull’occasione da non perdere (“Mica capita tutti i giorni un terremoto così!”) e si sfregavano le mani per gli appalti sulle ricostruzioni, gli aquilani si sono infuriati. Massimo ha 50 anni ed è sulla sedia a rotelle da aprile. Ha creato il gruppo su Facebook Quelli che a L’Aquila alle 3:32 non ridevano: “Mentre l’Aquila moriva loro ridevano” ha detto. “Nell’apice della tragedia pensavano ai loro affari. All’inizio mi sono trattenuto, ma poi lo sdegno è scoppiato dentro di me perché è una cosa inaccettabile: chi cerca di trarre profitto dal nostro dolore è un vero sciacallo”. Bonifacio è di Pianola e vive da abusivo in una casa che è stata dichiarata inagibile: quella è casa sua e nelle New Town non ci vuole andare. Anna fa parte della Compagnia aquilana di canto popolare e questa città ce l’ha nell’anima: ha preparato il suo vestito da fantasma ed è scesa in piazza a gridare la sua rabbia. Giusi è una docente all’Università de L’Aquila e con il cartello 3 e 32: io non ridevo al collo ed un megafono ha coordinato la manifestazione. Almeno altri trecento hanno fatto lo stesso percorso e a mezzogiorno si sono riuniti lungo la via principale, fino ad incontrare il blocco dei militari che da dieci mesi chiudono l’accesso a Piazza Duomo.
“Ci può entrare Bruno Vespa per Porta a Porta e non ci possiamo entrare noi a vedere?” gridava Federico, uno studente aquilano. Il clima di protesta è rimasto pacifico e rispettoso delle forze dell’ordine, e ancora una volta penso a quanto sia alta la soglia di sopportazione di questo popolo meraviglioso. Una donna arrivata in borghese per impedire l’accesso ripeteva: “E’ un problema di incolumità, non posso, è il sindaco che autorizza l’apertura di queste aree”.
Una donna con i capelli corti e biondi, piuttosto minuta ma piena di energia, si è avvicinata al viso del militare dietro i cancelli, con solo le maglie di ferro a dividerli. L’ha guardato dritto negli occhi e ha cominciato a gridare: “Voglio rivedere la mia città! La voglio rivedere!” Da qualche minuto un uomo con i capelli bianchi cercava di forzare la maglia di ferro e quando il rumore dei cancelli che si muovevano è diventato più forte, l’energia è salita alle stelle e tutti hanno cominciato a spingere, forzando il blocco dei militari al grido di “Basta! Aprite! L’Aquila è nostra!”
Anna non tratteneva l’energia e camminava a passo svelto, sola, piena di rabbia e di commozione allo stesso tempo. Tutti sapevano, ma vedere con i propri occhi lo spettacolo di Piazza Duomo ancora identica al 6 aprile ha fatto rimanere di stucco ognuno di loro.
Piazza Duomo a L’Aquila è una montagna di macerie.
“Il miracolo aquilano! Eccolo il miracolo aquilano!”, “Questa è la ricostruzione! Lo deve vedere tutta Italia!”, “Questa è la situazione dopo 10 me
si! Vergogna!” “Il set cinematografico per le loro campagne elettorali!”, “La Commissione Grandi Rischi che fine ha fatto?” le voci degli aquilani si sovrapponevano, gli sfoghi si accavallavano, la tensione e il dolore si alimentavano a vicenda ma la condivisione alleggeriva il peso e piano piano i visi si distendevano. “Meno male” ha detto Luca ad un amico, “ne avevo proprio bisogno, ero troppo depresso”. Bonifacio non si toglieva gli occhiali scuri e con un sorriso amaro mi ha detto “non so se si può usare questa espressione, ma oggi sono tristemente contento. L’ultima volta che ho visto questa piazza, la mia piazza, era il 5 aprile. Era il fulcro della nostra socialità. Oggi siamo venuti fino a qui insieme, e finalmente vediamo lo stato delle cose, mostrandolo a tutti gli italiani. L’Aquila non può prescindere dal suo centro, perché quella è la sua storia. Non quattro o cinque periferie nuove, fatte di casermoni, scollegate l’una dall’altra, costate 2700 euro a metro quadrato”.
Un ragazzo è salito sulla montagna di macerie e da lì, a gran voce, ha incalzato il suo popolo con queste parole: “Nessuno rideva qui! I cittadini, gli studenti, nessuno rideva! Rispetto per questa città e per la nostra dignità, per le vittime, per la gente che silenziosamente ha lavorato in questi mesi, per i vigili del fuoco ma anche per la Protezione Civile onesta! Noi ricostruiremo L’Aquila, ma saremo noi cittadini!”
“Io non ho mai preso una multa e oggi ho dovuto commettere un reato per vedere in che stato è la mia città” ha detto Federico. “Vorrei sapere dove stanno gli altri aquilani! Stanno dentro le case? Stanno sistemati negli alberghi? Gli basta questo?” Altri cori si sollevavano per dar loro manforte, molti applaudivano, qualcuno piangeva. “Ecco, questa è L’Aquila”, continuava a ripetere a tutti un uomo mostrando una pietra, un pezzo delle macerie della sua città.
Mille emozioni tanto forti quanto discordanti tra loro si agitavano in quella piazza, fatta di otto secoli di storia: la torre, la biblioteca comunale, il palazzo del Comune, il palazzo Margherita. E cumuli e cumuli di macerie ancora lì, su cui a poco a poco ogni aquilano è salito per tenerne simbolicamente in mano un pezzo. “Il dolore, la commozione, la rabbia… noi abbiamo tutto dentro, a volte ci sentiamo esplodere” dice una donna. “Perché perdere una città è una cosa che chi non l’ha vissuta non la può capire. Noi ci chiediamo dov’è la nostra comunità, dove sono gli aquilani, siamo sempre troppo pochi rispetto al sentimento che crediamo di rappresentare!”
Sempre troppo pochi. Dove sono gli aquilani che non sono andati a dichiarare il proprio amore alla città, nel giorno più romantico dell’anno? Sono in altre città, in affitto o nei casermoni costruiti in luoghi più che periferici come Bazzano e Preturo, dove è difficile persino chiedersi il perché di tutto questo. È difficile perché si è costretti a vivere fisicamente lontani dalla propria identità, il tessuto sociale si sfilaccia, si perdono i punti di riferimento. Dopo molti mesi in tenda, sono pochi coloro che non si sono allontanati, coloro che sono rimasti qui per monitorare la situazione, rientrando nelle case inagibili, senza gas, arrangiandosi in garage e simili.
Ancora più che nei primi mesi, alla luce delle vergognose intercettazioni è evidente che la priorità in tutta questa faccenda era economica. A ricostruire la città, nessuno avrebbe potuto guadagnarci quanto con gli appalti e i subappalti per le New Town e gli insediamenti del piano C.A.S.E., i Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili che da poco si è scoperto essere niente affatto ecocompatibili, bensì senza fogne: le acque scure vengono scaricate direttamente nel fiume Aterno. Scempi edilizi senza identità che questo governo vuole imporre come modello in deroga a tutte le leggi ed i piani regolatori.
Con una tale disgregazione sociale tutto quello che si organizza è molto precario e prendervi parte richiede un notevole sforzo economico e fisico. Un singolo cittadino conta meno di niente in questo sistema dove le stesse autorità cittadine sono scomparse. Ma la forza degli aquilani è grande e questo gesto di vero amore, che nonostante il freddo di febbraio ha scaldato il cuore della zona rossa de L’Aquila, sembra essere solo uno dei primi passi verso la riconquista.
“Dove sono i politici? Noi siamo ancora qui. Sono loro i poveracci”, ha detto una donna con il cappello e gli occhi lucidi. “Questo è il centro e questo deve restare. Non vogliamo allontanarci: qui c’è la nostra storia e la nostra anima!”
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