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Clan Madonia, tra condanne e richieste di risarcimento

Di Rosario Cauchi il . Sicilia

La famiglia mafiosa dei Madonia, per decenni padrona del territorio nisseno, senza alcuna differenza tra l’area più settentrionale e quella meridionale, si trova ad affrontare un periodo di notevole complessità, stretta tra continui procedimenti penali, molti dei quali in atto, e richieste, da taluni definite assurde, legate a quella che gli annali giudiziari definiscono già come l’inchiesta decisiva per le sorti dell’organizzazione: quella sfociata nel processo “Grande Oriente”.

L’indiscusso dominus della compagine, Giuseppe Madonia, da anni sottoposto al regime del 41 bis, attivato all’indomani della cattura in territorio vicentino, di recente trasferito dalla struttura carceraria de L’Aquila, gravemente colpita dal sisma dell’Aprile scorso, a quella toscana di Spoleto, non può certamente più contare su una vasta rete di sodali, degna di quella strutturata tra gli anni ’80 e ’90: anche i suoi più stretti congiunti sono divenuti prioritari destinatari dei provvedimenti emessi dalla magistratura.

Mercoledì 3 Febbraio, il primo troncone dell’indagine “Atlantide-Mercurio”, risalente al Gennaio 2009, è giunto a conclusione: il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Caltanissetta, Francesco Lauricella, ha disposto le necessarie pene nei confronti di quegli imputati che avevano scelto di non accedere alla fase dibattimentale.

Giovanna Santoro, moglie del boss di Vallelunga Pratameno, ha subito una condanna a quattro anni di reclusione, con l’accusa di intestazione fittizia di beni, al pari di Marco Barberi, figlio di Alessandro, in passato ai vertici della famiglia, e genero dell’indiscusso reggente, punito, però, con due anni e otto mesi; Maria Stella Madonia, sorella di Giuseppe, si è vista infliggere una punizione pari a sei anni, Francesco e Giuseppe Lombardo, rispettivamente figlio e marito della stessa, hanno patito, invece, condanne a quattro e due anni; per i fratelli Giuseppe e Gaetano Palermo, ex gestori di una nota gioielleria, il verdetto è stato di quattro anni ciascuno; la figura di riferimento dell’intera indagine, il docente di educazione fisica, Carmelo Barbieri, oggi collaboratore di giustizia, si è visto imporre una condanna a due anni e otto mesi di detenzione, conforme a quella subita da Claudio Domicoli e Paolo Palmieri, uomini da sempre legati a cosa nostra gelese.

Ma se i periodi di restrizione della libertà vissuti da molti affiliati al clan non smettono di progredire, raggiungendo soglie assai elevate, gli stessi continuano ad occupare la ribalta mediatica, non solo in conseguenza dei molteplici accadimenti delittuosi, bensì collocandosi su di un’inedita visuale scenica.

Il processo denominato “Grande Oriente”, scaturito dall’omonima inchiesta giudiziaria, viene generalmente ricordato non tanto per la drastica destabilizzazione indotta in seno al regno di Giuseppe Madonia, quanto, invece, per l’estrema lentezza dimostrata, dall’allora presidente del collegio giudicante di primo grado, Edi Pinatto, nel depositare le relative motivazioni: dopo quarantanove udienze e cinquanta ore di camera di consiglio, il complessivo ragionamento processuale, base indefettibile dell’intera decisione assunta, venne depositato solo a conclusione dell’ottavo anno dal procedimento, chiusosi il 22 Maggio del 2000.

Il fatto, costato la radiazione dall’ordine giudiziario al magistrato sotto accusa, ha, evidentemente, turbato anche alcuni degli imputati, fino al punto da spingerli, attraverso i rispettivi rappresentanti legali, gli avvocati Flavio Sinatra e Antonio Impellizzeri, alla proposizione di un ricorso finalizzato, ai sensi della legge n. 89 del 2001, cosiddetta “legge Pinto”, all’ottenimento di un’equa riparazione per l’inosservanza del ragionevole termine di durata del processo.

Nove anni, evidentemente, sono troppi anche per i destinatari di pesanti condanne penali.

La decisione, che dovrà  essere assunta dai competenti giudice della Corte d’Appello di Catania, non tarderà molto ad essere emanata: gli avvocati degli interessati, infatti, hanno già illustrato le ragioni degli assistiti innanzi ai giudicanti etnei.

Maria Stella Madonia, Giovanna Santoro e Giuseppe Lombardo, insieme a Salvatore Siciliano, componente della propaggine mazzarinese, e Giuseppe Alaimo, cugino di Giuseppe Madonia, tutti condannati nel corso dei tre gradi di giudizio, attendono speranzosi una decisione favorevole, anche sotto il profilo economico (normalmente l’eventuale riparazione si situa tra i 1.000 ed i 1.500 euro per ogni anno di ritardo): dopo molteplici sconfitte giudiziarie potrebbe giungere una vittoria.

I Madonia, almeno in questo, non demordono.

La detenzione, oramai pluridecennale, di quello che fu uno dei massimi componenti della commissione regionale di cosa nostra, sommata alla “dipartita ideologica” del suo delfino, Carmelo Barbieri, intanto passato tra le avverse fila, stanno progressivamente erodendo il potere dell’intera cosca, aggredita anche da taluni avversari interni: l’uccisione di Giuseppe Monterosso, risalente al 6 Maggio dello scorso anno, caduto sotto i colpi esplosi dall’arma impugnata da Alessio Contrino, inviato presso l’azienda di autotrasporto gestita, a Cavaria di Premezzo, in provincia di Varese, dalla vittima, direttamente da Andrea Vecchia, leader del clan Albanese-Messina di Porto Empedocle, non fu di certo un normale regolamento di conti, magari endogeno alla malavita siciliana spostatasi in Lombardia.

La cosca agrigentina, ancora sotto l’influenza del latitante Giuseppe Falsone, ha voluto colpire un affiliato al gruppo Madonia, già condannato durante il processo “Santa Barbara”, molto probabilmente per trasmettere il proprio messaggio fin dentro le mura del carcere di massima sicurezza di Spoleto.

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