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Ciliegino amaro

Di Walter Molino (da Linus) il . Sicilia

Il primo colpo di pistola è diretto in cielo. Il secondo alla collina, il terzo rimane in canna ed è puntato sul gruppo di egiziani improvvisamente immobili come sfingi. Tutti gli sguardi si concentrano su Hashim. Il suo nome in arabo significa “distruttore del male”. Contro la pistola del padrone però, c’è poco da distruggere. Hashim ha insistito con i suoi cinque compagni per andare a riscuotere la paga di sei mesi di lavoro. Il padrone ha risposto impugnando il ferro. I prossimi sono per voi, gli sbraita l’imprenditore agricolo di successo, una distesa di serre coltivate a pomodoro ciliegino, immancabile delizia sulle nostre tavole. Sei mesi di lavoro, dieci ore al giorno nelle serre delle campagne di Vittoria, sud est della Sicilia in provincia di Ragusa, la zona del “Pachino” con il marchio Igp, dove l’indicazione geografica è protetta, i diritti dei lavoratori decisamente meno.

In Sicilia, secondo le stime più recenti della Cgil, sono poco meno di 110 mila gli immigrati residenti regolari, di cui 20 mila impiegati in agricoltura. Altri 20 mila lavorano in campagna da irregolari. Clandestini, schiavi, fantasmi senza tutele né diritti. La maggior parte è concentrata in Sicilia orientale: Ragusa, Siracusa, Catania, la piana di Gela. Il lavoro nero è la consuetudine. Don Beniamino Sacco è il parroco della parrocchia dello Spirito Santo e da vent’anni ospita migranti e disperati nel suo centro di accoglienza. Regolari, irregolari, neocomunitari, a lui poco importa, son tutte bocche da sfamare: 250 pasti al giorno, un centinaio di posti letto. E’ stato don Sacco a convincere Hashim e i suoi amici a denunciare sopruso e violenza. Siamo clandestini padre, non ne volevano sapere. E invece alla fine il “distruttore del male” ce l’ha fatta, padroncino denunciato, pagamenti eseguiti e per tutti un permesso di soggiorno di protezione sociale. “Questa è solo una storia tra mille”, si schernisce don Sacco, che da mesi mette in guardia la sua comunità sulla bomba ad orologeria della questione immigrazione. “A Vittoria, su una popolazione di 55 mila abitanti, i migranti sono quasi 12 mila, di cui la metà irregolari”. La serra non è legata alla stagionalità eppure la crisi morde e molti di loro non riescono a lavorare più di un giorno a settimana. “La comunità è indifferente, anche a causa della gravissima crisi economica che strangola centinaia di imprenditori serricoli, i quali a loro volta, da vittime, si trasformano in carnefici, sfruttando il lavoro nero degli immigrati, specie di quelli più sottopagati, cioè la manodopera dell’est. Negli ultimi anni a Vittoria sono aumentati gli episodi di discriminazione razziale, ai danni di extracomunitari che sono stati insultati o picchiati anche senza alcun motivo”.

La paga è  da fame, la concorrenza aspra, il lavoro sempre più in nero. Solo nel comparto sudorientale dell’isola, l’Inps ha calcolato un buco di 350 milioni di euro di contributi non pagati. L’arrivo in massa di rumeni e polacchi ha fatto lievitare la domanda e precipitare i salari. Letterale, drammatica, autentica: è la guerra tra i poveri. Dappertutto si percepisce l’odio fra le etnie che si contendono il lavoro in campagna, soprattutto fra magrebini e rumeni e anche fra magrebini e immigrati del Centro e del Sud Africa.

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Cassibile ha un posto nella storia dal 3 settembre 1943: alle cinque della sera fu firmato l’armistizio che sanciva la resa italiana nella seconda guerra mondiale. Oggi è una popolosa frazione di Siracusa dove alle cinque del mattino i pullman dei caporali caricano gli stagionali per portarli a riempire cassette di patate, agrumi e pomodori a Lentini, Pachino, Vittoria, Augusta. Dodici ore di lavoro per 25 euro, più della metà finisce nelle tasche dei caporali. Fino a qualche anno fa la raccolta delle patate portava a Cassibile diverse centinaia di immigrati, mal tollerati dalla comunità locale. E così allo sfruttamento sui campi si univano spedizioni punitive di gruppi di adolescenti, che fa comodo a troppi definire bulli, armati di spranghe, bastoni e qualche tanica di benzina. Nel 2006 la prefettura approntò un campo di accoglienza per i lavoratori, gestito dalla Croce Rossa e rigorosamente riservato agli immigrati regolari. Tre anni dopo quell’esperienza è fallita: annusato il clima sempre meno accogliente perfino i regolari si sono ben guardati dal metterci piede.

Tra gennaio e febbraio in Sicilia si raccolgono le arance. Gli agrumi più  buoni e celebrati del mondo mettono in moto un meccanismo perverso. Commercianti e grandi distributori comprano il prodotto ancora sulla pianta. Servono braccia, entrano in gioco gli intermediari. Il prezzo si contratta con loro, 7-8 centesimi al chilo. Da questa miseria ci devono uscire la paga per il raccoglitore, le spese per il trasporto di schiavi e prodotti, il pizzo per il caporale. E’ ad ogni alba di questi giorni che si sostanzia l’incubo della transumanza. Migliaia di lavoratori, stranieri e italiani, raccattati sui pulmini da dieci posti ad Adrano, Biancavilla, Paternò e altri comuni del catanese e trasportati nei campi. L’ufficio di collocamento è la piazza, gestiscono i traffici caporali e cooperative senza terra. Spiega Salvatore Tripi, segretario regionale della Flai-Cgil che “non esistono aree d’incontro ufficiali tra domanda e offerta di lavoro. Così fino a qualche anno fa, dopo molti sforzi, gli extracomunitari regolari erano riusciti ad ottenere salari intorno ai 40-45 euro a giornata, poi l’ondata di neocomunitari, rumeni su tutti, ha fatto crollare i salari ai livelli di trent’anni fa. Loro si accontentano di poco pur di lavorare e i padroni evitano di avere a che fare con i clandestini”. Secondo le stime più accreditate, il 95% dei stagionali in agricoltura lavora in nero, il 70% subisce ulteriori abusi e maltrattamenti. I controlli previsti per legge sono una barzelletta. “In Sicilia l’Inps dispone di solo 104 ispettori, e di un’altra ventina l’ispettorato regionale del lavoro. Ce ne vorrebbero almeno quattro volte tanti”. In media l’Inps effettua in Sicilia appena 600 controlli l’anno per 35 mila aziende agricole e oltre 40 mila lavoratori. Facevano più paura gli “imprevisti” del Monopoli.

Casolari abbandonati, vecchie fabbriche in disuso, accampamenti di fortuna, cimiteri.  La metà degli schiavi stranieri delle campagne siciliane vive senza acqua corrente. Il 90% senza riscaldamento, uno su tre senza bagni, uno su quattro senza luce. L’acqua potabile è un lusso per pochi, solo il 40% la compra in bottiglia, gli altri riempiono le taniche dove capita. Per lavorare in campagna partono dall’Africa i più giovani e forti,  in Italia, in pochi mesi, si beccano malattie respiratorie e dermatologiche, parassiti intestinali e del cavo orale. Sembrano le denunce di Danilo Dolci sulle terribili condizioni di vita dei contadini siciliani negli anni ’50 e invece è uno studio di Medici senza frontiere del 2007. Quasi sessant’anni dopo, son solo cambiati i nomi, da Turi ad Hassan, da Aspano a Nashat. Cos’altro ci vuole per chiamarla schiavitù? Qualcosa in effetti ci mancava. L’abuso del corpo, la privazione di ogni briciolo di dignità. A Vittoria e dintorni le donne invisibili lavorano nelle serre per 20 euro al giorno e arrotondano cedendo al ricatto sessuale dei padroni che gli danno occupazione in nero e un alloggio fatiscente. Ucraine, polacche, rumene, senza contratto, senza orario. Sottopagate di giorno in campagna e di notte nel bordello riservato. Sesso a buon mercato per padrone e caporali.

da Linus di Febbraio 2010

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