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Usata dallo Stato e poi abbandonata

Di Chiara Spagnolo il . Calabria

Una donna coraggiosa, che ha fatto rivelazioni importanti sulle cosche del Crotonese, mettendo in gioco la sua vita per aiutare la giustizia. Lea Garofalo è scomparsa da tre mesi, molto probabilmente è morta. Lo crede la famiglia e anche gli inquirenti nutrono poche speranze di trovarla viva. Perché quando la ‘ndrangheta decide che qualcuno deve smettere di parlare il valore di una vita è davvero poca cosa. E quando lo Stato decide che un testimone di giustizia non ha bisogno di essere protetto, è probabile che chi vuole fargli del male ci riesca. 

La storia di Lea è solo l’ennesima che si aggiunge alla lunga lista di quelle di collaboratori di giustizia calabresi lasciati al loro destino. Figlia e sorella di esponenti della ‘ndrangheta del Marchesato, ha trascorso la vita intera nell’incubo della faida. Il padre Antonio fu assassinato a Petilia Policastro nella notte di Capodanno del 1975, quando Lea aveva appena otto mesi. Quel delitto diede inizio ad uno scontro terribile tra le famiglie Garofalo e Mirabelli: un morto dietro l’altro per decenni, sangue, dolore, la vita di un piccolo centro segnata dai lutti, le regole della convivenza civile stravolte dalla necessità di schierarsi da una parte o dall’altra. Dopo la morte del padre Lea fu costretta a fare i conti con la presenza ingombrante del fratello Floriano, ritenuto dalle Forze dell’ordine esponente di spicco della criminalità locale, arrestato più volte con l’accusa di omicidio, estorsioni, traffico di droga. Floriano, nel giugno 2005, fu ucciso a fucilate e in quel momento Lea capì che il sangue nella sua vita era stato davvero troppo. Dopo l’omicidio iniziò a collaborare con la Dda di Catanzaro, che, ritenendo utili le sue dichiarazioni, ammise la donna e sua figlia ad un programma di protezione provvisorio, chiedendo alla Commissione centrale per i servizi di protezione, l’ammissione ad uno definitivo. Da Roma, però, arrivò un secco rifiuto. Poiché le dichiarazioni di Lea “non avevano avuto autonomo sbocco processuale” la collaboratrice poteva essere lasciata sola. Anche se lei parlava di mafia, facendo nomi e cognomi, raccontando fatti e fornendo prove, quel che diceva – secondo l’organismo preposto – non era sufficiente a garantirle protezione. Non era abbastanza per cercare di salvarle la vita. Perché la sua vita, da tempo, era chiaramente in pericolo. 

A portarla sull’orlo del baratro ancora una volta un uomo. L’ennesimo, legato alle cosche, con cui condivideva i suoi giorni. Carlo Cosco era stato il suo amore. Da lui Lea aveva avuto una figlia, poi l’aveva lasciato. Dopo la fine della relazione, lei ne aveva paura. Perché Carlo non era uno stinco di santo e Lea lo sapeva bene. Sapeva anche che aveva partecipato all’omicidio del fratello Floriano e ad altri episodi criminali commessi tra la Calabria e la Lombardia. Se avesse voluto la donna avrebbe  potuto rovinarlo. E forse per questo Cosco tentò di rapirla, nella scorsa primavera. A denunciare il tentativo ai carabinieri fu proprio Lea Garofalo, che raccontò di un uomo che, fingendosi il tecnico della lavatrice, si introdusse nella sua abitazione di Campobasso, la immobilizzò e cercò di strangolarla. Un tentativo di rapimento  non andato a segno per la pronta reazione della donna, che pochi giorni fa è costato il carcere all’uomo che lo realizzò, Massimo Sabatino, e a quello che l’avrebbe organizzato, cioè Carlo Cosco. “Vuole farmi ammazzare”, disse Lea a maggio agli investigatori. “E’stata ammazzata” dice oggi la madre Santina Miletta, che da novembre non ha più notizie della figlia. “E’ stata uccisa perché è stata lasciata senza tutela”, aggiunge, convinta che qualcuno le abbia teso una trappola. 

L’ultima volta Lea è stata vista a Milano. Vi era arrivata il 24 novembre insieme alla figlia per incontrare Carlo Cosco e discutere con lui degli studi della ragazza. Padre e figlia si sono recati in visita da alcuni parenti nel capoluogo lombardo, Lea ha preferito non accompagnarli, dando loro appuntamento alla stazione centrale. Un appuntamento a cui la collaboratrice non è mai arrivata. Senza fornire a nessuno alcuna spiegazione. Né alla figlia che l’aspettava per rientrare in Calabria, né alla madre che l’aspettava a Petilia, né all’ex convivente Carlo Cosco, che ne ha poi denunciato la scomparsa ai carabinieri. Oggi Cosco è in carcere, accusato del tentativo di sequestro di maggio, ma si teme che possa essere coinvolto anche nella scomparsa della donna. La madre di Lea non ha dubbi. Ma anche gli inquirenti ritengono probabile che la testimone sia stata uccisa. Come, per ora, nessuno lo sa. Perché non è difficile intuirlo: chi parla, in Calabria, quasi sempre paga. La ‘ndrangheta è forte proprio perché le collaborazioni con la magistratura sono scarse, dal momento che la maggior parte delle persone – affiliati e non – ritengono che l’omertà sia una scelta necessaria per salvarsi la vita. Una strada che Lea, invece, ad un certo punto ha deciso di abbandonare. Troppo sangue nei suoi 36 anni, troppo dolore, troppi morti, per poter restare ancora in silenzio. Con coraggio ha scelto di aiutare lo Stato. In cambio ha chiesto protezione, perché sapeva che ciò che aveva rivelato le sarebbe costato caro. Chi doveva aiutarla, però, le ha voltato le spalle, facendo vincere i tecnicismi e la burocrazia sull’attenta valutazione dei rischi che la collaboratrice correva. Oggi Lea Garofalo viene definita vittima di un caso di lupara bianca. Ovvero è scomparsa. Per la sua famiglia, invece, è morta. Uccisa da chi voleva vendicarsi delle sue parole con la complicità di quello Stato che non ha saputo, o voluto, proteggerla. 

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