Viaggio nella Memoria
Tralicci di filo spinato e mattoni rossi incupiti dal tempo, torri di guardia deserte e appuntite che sono lugubri sagome contro il cielo incolore, il suolo ammantato di neve e la scritta “arbeit macht frei’, il lavoro rende liberi, il motto in ferro battuto, una mannaia sopra il varco del luogo che rappresenta paradigmaticamente la follia del uomo che irradia il male ai suoi vertici.
Sono qui in occasione della commemorazione del “giorno della memoria” a cui Libera ha voluto aderire grazie all’iniziativa dell’Associazione Terra del fuoco che dal 1995 ogni anno porta migliaia di studenti provenienti da scuole di tutta italia a Cracovia attraverso il progetto denominato ‘treno della memoria’ che ha l’obiettivo di sensibilizzare i giovani sul valore della memoria, della cittadinanza attiva e della responsabilità. Questo percorso dura un intero anno e culmina con la visita dei campi di Auschwitz – Birkenau. I treni sono partiti da ben 7 regioni con più di 9000 ragazzi a bordo accompagnati dagli educatori dell’associazione e sono giunti a Cracovia dove oltre a trovare alloggio hanno avuto modo di visitare il ghetto ebraico della città. Da lì sono partiti con dei pullman che hanno percorso campagne innevate su strade ancora percorse dagli spargisale e sono giunti nei pressi di Oświęcim, dove sorgono i campi.
Noi di Libera abbiamo seguito il loro stesso percorso e una volta arrivati ad Auschwitz ci facciamo guidare da una giovane polacca che ci illustra il funzionamento dei lager. Visiteremo 2 strutture delle 3 di cui è composto il campo. Sono denominate Auschwitz I e Auschwitz 2 (Birkenau). La prima, era l’originario campo di concentramento reso operativo dal 14 giugno 1940 e centro amministrativo dell’intero complesso, la seconda fu il vero e proprio «campo di sterminio» che arrivò a contare fino ad oltre 100.000 prigionieri e nel quale persero la vita circa un milione di persone, per lo più ebrei e zingari condotti alle camere a gas immediatamente dopo il loro arrivo. Dopo avere attraversato l’ingresso cirocndato da un recinto di filo spinato la guida ci conduce attraverso gli 11 blocchi di Auschwitz I che sono edifici architettonicamente essenziali rimasti praticamente intatti e inalterati dai tempi in cui il campo è stato evacuato dopo l’arrivo dell’armata rossa. Ma mentre ieri quelle strutture svolsero un ruolo fondamentale nei progetti di “soluzione finale della questione ebraica” – eufemismo con il quale i nazisti indicarono lo sterminio del popolo ebraico – oggi sono un luogo dedicato alla memoria delle vittime che lì vennero uccise e ospitano un museo a loro dedicato che è ora patrimonio dell’Unesco.
Attraversare questi blocchi significa riattraversare tutte le tappe che i prigionieri percorrevano nel loro devastante iter verso la morte, dall’arrivo coi convogli fino ai crematori. Se non fosse per le torrette e il filo spinato, a guardarlo da fuori, il campo di Auschwitz I sembra quasi una sorta di antico complesso residenziale composto da enormi case popolari o edifici pubblici, scuole o ospedali circondati da bettulle. Quest’apparenza spiazzante e quasi accomodante combinata con la presenza massiccia degli studenti, provoca un cortocircuito con i ricordi delle tragiche immagini che mi hanno riempito di sgomento quando le vidi da ragazzo, immagini dall’evidenza basica che nessuna delirante congettura negazionista potrebbe frantumare. Immagini che ritrovo anche all’interno dei primi blocchi che visitiamo, pannelli che illustrano l’arrivo dei deportati ungheresi al campo. Ci assembriamo attorno ad esse ma per la prima volta la mia attenzione si rivolge ad altro: cerco di registrare i colori e la forma di queste stanze, un tempo dormitori delle ampie finestre che danno sul cortile. Nulla lascia trapelare orrore. Sono enormi androni che ricordano un po’ certi vecchi ospedali con la verniciatura più scura nella parte inferiore, solo che al posto dei letti troviamo sobri pannelli museali. Lungo il percorso dei vari blocchi ci arrampichiamo su ripide e strette scale caratterizzate dalla concavità dei gradini consunti per raccoglierci intorno ai tabelloni e alle foto che forniscono dati storici sull’olocausto e illustrano il funzionamento del campo, ci avviciniamo alle sobrie ed enormi bacheche che custodiscono montagne di suppellettili ed effetti personali quali scarpe, (anche di bambini), occhiali, orologi, spazzolini ma anche lunghe trecce di capelli, pronti per essere riciclati e reimmessi nel ciclo produttivo sotto forma di tessuto e resti di barattoli di zyclon B, il pesticida che fu usato nelle camere a gas.
Ogni blocco aveva una funzione ben precisa: defraudare della propria identità e trasformare un essere umano in puro corpo, in eccedenza, numerare, quantizzare per poi cancellare. Vedere queste stanze impressiona per la lucidità e per la sistematicità di come il massacro era logisticamente organizzato, sensazione corroborata anche dai documenti ufficiali del reich esposti nelle bacheche lungo gli spogli muri, lunghe liste di nomi e numeri. Disumanizzare. E’ quanto mi suggerisce la visione dei dormitori (alveari composti da assi di legno) e delle celle per i condannati a morte (delle dimensioni di 1m x 1m) e dei lunghi e stretti corridoi che stiamo percorrendo in fila indiana e tenendo la destra per facilitare il deflusso, data la numerosità dei ragazzi che sono qui.
Gli educatori dell’associazione ci consegnano una striscetta di carta sulle quale dovremo appuntarci il nome di una vittima scelto secondo i nostri criteri da una galleria di fotografie appese sulle pareti di un lungo corridoio, nomi che poi dovremo leggere a voce alta ad uno ad uno nella commemorazione finale che si celebrerà nel campo di Birkenau. Una maniera per mettere in moto una pratica interiore che conduca a comprendere quanti e quali velami si sovrappongono alla natura di bene del nostro essere attraverso l’esercizio dell’identificazione. La galleria di volti ormai ingialliti dal tempo è una sequela di espressioni umane che incrociano quelle incuriosite dei ragazzi che scrutano quei visi per individuare quale sarà il loro alter – ego, un esercizio di ‘compassione’. I nomi vengono appuntati, la visita può continuare. Con le nostre striscette in tasca concludiamo il giro ad Auschwitz I passando in silenzio per l’unica camera a gas di questo campo, un ex obitorio seminterrato situato in fondo alle strutture/dormitorio. E’ un antro oscuro e opprimente da cui, sollevando lo sguardo si possono scorgere i buchi da cui veniva fatto calare il gas dal soffitto. Regna un silenzio soffuso e c’è quasi fretta di andarsene per la troppa concentrazione emotiva.
Il pullman ci porta a Birkenau. A differenza del campo di Auschwitz I qui non c’è quasi più niente di intero, resta il perimetro con le torrette e il filo spinato, qualche baracca in muratura e qualcuna in legno, le rovine dei crematori, il binario che spacca a metà il campo. Birkenau è un luogo sterminato e si presenta come una vasta zona pianeggiante dominata da un’enorme e torva torre di guardia sotto la quale si apre l’ingresso al lager e attraverso il quale i treni dei deportati dal ‘44 giungevano direttamente all’interno del campo per semplificare le operazioni di sterminio. La maggior parte delle baracche in legno che lo componevano sono andate distrutte nel novembre 1944, per paura dell’avanzata dell’Armata Rossa allo scopo di nascondere le prove del genocidio. Ormai resta solo una distesa di camini di mattoni a testimonianza di ciò che doveva essere un insufficiente sistema di riscaldamento. La visione dei binari che portano all’interno dell’enorme campo di Birkenau e dei resti delle camere a gas lascia sgomenti per la constatazione di una gestione su scala i
ndustriale della morte caratterizzata dalla brutalità di un’ operazione che non ha nulla a che vedere con l’umano. Proprio per questo, per via dell’eliminazione affidata a un cieco dispositivo tecnologico, per essere stati privati di qualsiasi connotazione umana della morte, qui non è possibile nessuna elaborazione del lutto. Non c’è niente di umano nelle baracche di legno dei dormitori e delle cloache comuni, nulla di umano in quel perimetro di filo spinato e nei resti delle camere a gas, niente di umano in tutto ciò che i miei occhi hanno visto da quando sono entrato in questo posto.
ndustriale della morte caratterizzata dalla brutalità di un’ operazione che non ha nulla a che vedere con l’umano. Proprio per questo, per via dell’eliminazione affidata a un cieco dispositivo tecnologico, per essere stati privati di qualsiasi connotazione umana della morte, qui non è possibile nessuna elaborazione del lutto. Non c’è niente di umano nelle baracche di legno dei dormitori e delle cloache comuni, nulla di umano in quel perimetro di filo spinato e nei resti delle camere a gas, niente di umano in tutto ciò che i miei occhi hanno visto da quando sono entrato in questo posto.
E’ una sensazione di irrealtà e frizione tra ciò che il campo è oggi e ciò che doveva essere nel passato e che mi ha accompagnato per tutta la durata della visita rafforzando la convinzione dell’impossibilità di narrare questo posto e facendomi comprendere ciò a cui allude Primo Levi quando dice che il racconto di ciò che è accaduto ad Auschwitz non dovrebbe nemmeno essere effettuato dai sopravvissuti, ma soltanto da coloro che sono morti. I morti, penso, non scrivono e non parlano: però possono essere sentiti. Ed è quello a cui mira l’operazione di Terra del fuoco. Il nostro compito è sentire chi ci permette ancora di essere umani, cioè chi è stato separato e trucidato nei campi di sterminio.
La visita si conclude infatti con la lettura dei nomi da parte dei ragazzi raccolti attorno alle lapidi commemorative. Cala la sera e le voci echeggiano e accarezzano tutto il campo, sono un canto di speranza, un momento molto intenso in cui la memoria per chi ha sofferto ci ricorda che siamo vivi e che soprattutto i vivi debbano essere rispettati perchè Auschwitz non è finito, è un’incombenza in un mondo in cui il rotolamento verso l’abominio è tutt’ora possibile e presente.
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