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La “copertura” dell’antimafia

Di Rosario Cauchi il . Sicilia

La Sicilia vive, oramai da decenni, un costante declino, economico e sociale: le uniche graduatorie che la vedono primeggiare sono, infatti, quelle legate ai tassi di emigrazione interna e di pervasività criminale.

Il 2010 ha esordito secondo modalità analoghe a quelle prevalse nel corso dei dodici mesi appena trascorsi: se le convergenze anomale, aggettivo oramai veramente inadeguato alla definizione di una prassi, quella delle unioni politiche estranee agli elementi ideologici del passato, fattasi costante generalizzata, non hanno mai abbandonato l’isola (la strategia milazziana degli anni a cavallo tra il 1958 ed il 1960 si pone solo come originario monito), la rabbia e la mobilitazione, spesso estranea all’inquadramento sindacale, dei lavoratori sembravano non riguardare più una terra progressivamente asservitasi alle volontà ed alle scelte di pochi, ed assai selezionati, componenti di un nucleo di potere politico-affaristico-economico.

Molti di quegli stessi vessati, spesso passati per il benestare del consigliere comunale o provinciale di turno, loro garanti per un travagliato accesso al tanto famigerato, e sempre più drogato, mercato del lavoro, sono oggi protagonisti di un moto di sdegno e furia indotto da una netta e traumatica violazione del “patto sociale”: il posto di lavoro che sfuma, in Sicilia, rischia di bloccare definitivamente una qualsiasi idea o immagine, seppur labili, di futuro.

A Termini Imerese i dipendenti dell’impresa, Delivery Email, operante nell’eterogeneo scenario dell’indotto Fiat, si sono “arroccati” sul tetto dello stabilimento automobilistico per oltre dieci giorni, conseguendo la “vittoria” della cassa integrazione, anche questo è un successo all’interno del mercato globale della precarietà; i portuali della S.C.S. di Trapani si sono spinti, alla stregua di esperti circensi, fino alla vetta di una gru, allo scopo di rivendicare una dignità sfumata alla stessa maniera delle loro commesse, tutte acquisite da un nuovo soggetto economico; il gruppo delle telecomunicazioni, Italtel, ha annunciato 450 esuberi, tra gli interessati potrebbero esserci i dipendenti dello stabilimento di Carini, per tale ragione già in preallarme; gli operai della Keller di Palermo, in totale 250, dovranno accontentarsi di un periodo di formazione, quasi un’offesa per chi svolge la medesima attività da almeno un ventennio, unica opzione in grado di eludere il baratro della mobilità; l’indotto dello Stabilimento Petrolchimico di Gela, controllato in tutto e per tutto dalla multinazionale per eccellenza, l’Eni, si opporrà ad ogni tentativo di totale marginalizzazione, come dimostrato dallo sciopero organizzato lo scorso mercoledì a sostegno della richiesta, formulata da due loro compagni, di rientrare entro un ciclo produttivo che li ha inspiegabilmente espulsi due anni fa; gli addetti della Cesame s.r.l. di Catania, in passato parte di un’ “elite” ammirata ed invidiata, oggi sono costretti ad escogitare opzioni alternative a quella della cassa integrazione, tanto da perorare la causa di un controllo diretto dell’entità economica, insomma una gestione priva di intermediazione padronale; la storica fabbrica dell’azienda, Averna, di Caltanissetta riduce ai minimi termini l’impegno siciliano, trasferendo la quasi totalità dei propri interessi, commerciali e produttivi, in Piemonte ed Emilia-Romagna; tredici, tra uomini e donne, quotidianamente impegnati nel servire giovani e giovanissimi universitari si trovano, invece, fuori dalle mura delle strutture ricettive dell’Università degli Studi di Catania, a seguito di una drastica decisione adottata dall’impresa datrice, la Cascina Global Service.

La cruda realtà, dunque, smentisce platealmente ogni tentativo, spesso veramente velleitario, di soppiantarla, favorendo, così, l’avanzata di una non meglio precisata prosperità, in attesa solo di esplodere in tutto il suo fulgore.    

Le entità fautrici di simili peregrinazioni tra gli strumenti che le normative nazionali predispongono in favore degli espulsi, o solo temporaneamente accantonati, dalla dimensione del lavoro manuale e cognitivo, come noto, costituiscono l’asse portante di associazioni datoriali assai attive, tra le quali non può che primeggiare la vedete Confindustria.

Il direttivo di quest’ultimo organismo non ha mancato di far pesare valutazioni, assai dure e definitive, incentrate sulla madre di tutte le battaglie per il lavoro in Sicilia, quella condotta da quasi un decennio dagli operai della Fiat di Termini Imerese, ambasciatori di un malessere e di una precarietà esistenziale, strutturali alla condizione del salariato isolano.

L’attuale presidente del “parlamento degli industriali”, Emma Marcegaglia, tra i responsabili di un gruppo imprenditoriale, tutto familiare, divenuto nel corso degli anni leader nel settore della trasformazione dell’acciaio, partecipando al Forum Economico di Davos, in Svizzera, mecca dello più sfrenato liberismo, ha così sentenziato: “mi sembra che le dichiarazioni dei  vertici Fiat indichino che dopo il 2011 la Fiat di Termini Imerese non potrà essere ancora là; non è possibile difendere impianti non competitivi”.

L’affermazione, semplice ed immediata, pone soluzione, dal suo personale punto di vista, ad ogni possibile dilemma: i lavoratori si rassegnino, quando il principio del profitto al minor costo chiama, non può che ricevere adeguata risposta.

Ma l’imprenditrice, servendosi di uno schema assai discutibile, non si è voluta risparmiare, giungendo a ribadire la piena condivisione verso la scelta adottata dalla sezione siciliana di Confindustria, schieratasi a favore di una netta opposizione allo strapotere mafioso: chiunque non denunci le vessazioni subite non potrà più permanere nei ranghi di simile entità.

Ma come può giustificarsi l’appoggio appena descritto con la strenua difesa di politiche aziendali infarcite di costanti tagli al personale, entro i confini di un territorio che proprio  a causa della totale assenza di soluzioni di approvvigionamento legale ha visto irrobustirsi la metastasi mafiosa?

Ovvero, come può sponsorizzarsi la piena legalità e trasparenza ed al contempo destabilizzare la già fragile struttura sociale siciliana, giustificando scelte meramente utilitaristiche?

Del resto il principio della legalità, divenuto di pubblico dominio, propagandato anche da improbabili partner, si trasforma, purtroppo, in rilucente specchio utilizzato per fini davvero eterogenei.

L’antimafia in Sicilia, così, si converte, per merito di pochi, in utile espediente destinato all’imposizione di politiche e scelte strategico-economiche di comodo.

Quale sviluppo può garantire la costante perdita di posti di lavoro, se non quello già fatto proprio da managers e dirigenti che occupano le comode poltrone delle adunanze confindustriali?

Codici di trasparenza ed autoregolamentazione, certamente necessari, divengono ininfluenti innanzi alla rabbia di lavoratori costretti a barricarsi entro strutture da loro stessi animate solo poco tempo prima.

L’eticità, principio troppo complesso da diluire in retoriche composizioni grammaticali, diviene valore da attuare nella quotidiana pratica; la delegittimazione dei potentati confindustriali trae origine proprio dalla violazione di una simile consequenzialità.

Il presidente, Emma Marcegaglia, difficilmente potrà trovare comprensione difronte ad individui destinatari di misere paghe, da difendere alla stregua di irrinunciabili beni, quando gli stessi possono apprendere della pena patteggiata dal gruppo dell’acciaio, innanzi al Tribunale di Milano, con l’accusa di corruzione nei confronti di un dirigente alle dipendenze di Enipower o, ancora, della condanna a quattro anni di detenzione inferta al capostipite dell’azienda, Steno Marcegaglia, padre della stessa leader, nel contesto della bancarotta dell’immobiliare,
Italcase-Bagaglino.

Roberto Scarpinato, magistrato al vertice del gruppo di contrasto ai crimini economici della Procura di Palermo, solo lo scorso Luglio, del resto, aveva già messo in guardia rispetto a talune oscure strategie in atto entro la rappresentanza industriale del capoluogo, “Confiundustria, oltre a estromettere chi non denuncia le estorsioni mafiose dovrebbe rafforzare i controlli sui grandi imprenditori, che molto spesso hanno collegamenti con cosa nostra. L’imprenditoria mafiosa continua a lavorare alacremente a Palermo. Anche all’interno di Confiundustria, magari sotto traccia, c’è una forte divisione tra l’imprenditoria pulita e quella mafiosa che sta cercando di fermare il rinnovamento e il rilancio dell’economia siciliana”.

Qualche fattore, oggettivo o soggettivo, evidentemente non occupa il riquadro corretto se la battaglia antimafia viene utilizzata quale paravento di una vera e propria “mattanza sociale”, perpetrata ai danni dei lavoratori in Sicilia.

La legalità, ontologicamente intesa, non può imporsi per il tramite della semplice forza dello Stato, e conseguentemente delle sue lunghe connessioni istituzionali, ma deve radicarsi iniziando dal rispetto dell’altrui dignità, e non vi è nulla di più nobile per un qualsiasi individuo che conseguire sostentamento dalla propria attività, manuale o cognitiva.

Gli scioperi, le occupazioni, le barricate, i cortei, proseguiranno fino a quando non verrà sconfitta l’abitudine di tracciare diagrammi di flusso finanziario sulle divise dei dipendenti. 

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