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La mafia gelese serra le fila

Di Rosario Cauchi il . Sicilia

I clan mafiosi a Gela non sono mai stati tanto in difficoltà come oggi: i “venerabili” di cosa nostra e stidda, menti e braccia di oltre un decennio di sangue e soprusi, nonché strateghi di un vasto piano di assoggettamento economico, imperniato sulla gestione delle estorsioni, degli appalti ed in generale di tutto ciò che può garantire profitto all’interno di un territorio ove, viceversa, chi cerca di mantenere la proverbiale “diritta via” si vede costretto ad incatenarsi ai cancelli di un sogno industriale mutatosi in costante incubo notturno, hanno smarrito, all’interno delle molteplici strutture detentive frequentate in questo lungo periodo, la loro tradizionale sicurezza.

L’operazione “Extrema Ratio”, risalente alla settimana appena trascorsa, ha solo confermato la pressione, fattasi ancor più asfissiante nel corso dell’anno che ci ha lasciati, inevitabilmente subita da una mafia locale, sempre più distante dalla violenza di carattere “casalese” che la contraddistinguette all’inizio della guerra, endogena al mondo criminale gelese, degli anni ottanta e novanta. L’affronto più insopportabile da sostenere non si identifica con gli ergastoli e i lunghi periodi di reclusione patiti, bensì con la progressiva sottrazione di vitali spazi economici da occupare: l’inesauribile cuccagna del pizzo imposto, a piacimento, a qualsiasi esercente o entità economica, ivi comprese quelle attive presso l’insediamento Eni; la costante formazione di società operanti in diversi settori, tra i più gettonati quello edile, in grado di inquinare il mercato attraverso la costituzione di veri e propri cartelli; niente di tutto ciò, allo stato attuale, può ritenersi ancora possibile, o, perlomeno, realizzabile in grande scala.

La mafia gelese è giunta veramente ad un bivio: in mancanza di costanti risorse economiche e di veri sostegni politico-istituzionali, sono distanti oramai gli episodi accertati in quell’estate del 1992 che segnò il totale de profundis di una struttura amministrativa troppo vicina a forme, imbarazzanti ed inquietanti, di co-gestione affaristico-criminale. Il senso di assoluta instabilità che la attanaglia si può ben percepire anche dall’analisi delle mosse attuate dai suoi molti “graduati”, passati, in breve tempo, dalla cerchia dell’illegalità a quella della collaborazione: favorendo il perfezionamento di diverse ed imponenti inchieste, da “Atlantide-Mercurio” a “Cerberus”, fino alla tappa denominata “Extrema Ratio”.

Carmelo Barbieri, già notabile del gruppo Madonia, Rosario Trubia e Crocifisso Smorta, “pezzi grossi” del clan Emmanuello, Marcello Orazio Sultano, transitato nell’organigramma della stidda, sono solo pochissimi nominativi di un elenco, in ogni caso, periodicamente aggiornabile. Ma i “gilisi”, così come vengono definiti dai membri delle fazioni criminali forestiere quelli che continuano a militare entro i ranghi dell’organizzazione, non possono tutti arrendersi: tant’è che un nucleo, ferreo e ancora ben strutturato, non intende in nessun modo arretrare, pur dovendo sostenere un costante regime carcerario.

Emblematica, in questo senso, l’aggressione subita, ancor prima delle recenti festività natalizie, da Giuseppe Cassarino, arrestato nel corso dell’operazione “Cerberus” ed accusato di essere contiguo al gruppo già condotto da Daniele Emmanuello: dopo un colloquio sostenuto con i magistrati assegnatari dell’inchiesta, lo stesso, recluso presso la Casa Circondariale di Caltanissetta, veniva accerchiato da quattro detenuti con l’obiettivo di costringerlo a spiegare le motivazioni dell’incontro: il risultato finale? Violente percosse perpetrate dal capobranco, Emanuele Argenti, tra gli amministratori della congregazione Madonia-Emmanuello-Rinzivillo-Argenti.

L’accadimento, già di per sé assai significativo, doveva, però, servire da monito, ed a tal fine non era sufficiente la mera aggressione: bisognava far comprendere a tutti i presenti che i “gilisi” non scherzano e, soprattutto, non tollerano avventati passaggi di casacca. “Ora la dobbiamo finire di andare dai pubblici ministeri”, la voce di Emanuele Argenti ha così riempito lo spazio destinato alla tanto agognata ora d’aria degli ospiti; tutti dovevano rendersi conto che Gela non è dei collaboratori di giustizia, che i Madonia, i Rinzivillo, i Trubia, gli Emmanuello, i Cavallo, gli Argenti, non sono dei traditori: insomma, con la mafia del Comune dell’antimafia si devono ancora fare i conti.

Al fronte di coloro che si sono definitivamente arresi, fiaccati da due decenni di ininterrotta militanza, fonti inesauribili di condanne e pendenze penali, vuole opporsi quello dei fedelissimi alla causa, mai domi pur se ristretti entro quattro spesse mura. I soldati semplici, purtroppo, in una terra di forte disoccupazione e spiccato abbandono scolastico non aspettano che l’ultimo “ruggito” di vecchi leoni, posti in cattività ma sempre disposti ad azzannare il proprio addestratore.

I detenuti reclamano il necessario sostentamento, al pari delle loro famiglie; la mafia s.p.a. non può permettersi di lasciare per strada occasioni essenziali: dall’Abruzzo della ricostruzione alla Lombardia dell’Expo 2015, l’edilizia non conosce soste, ed anche l’imprenditoria “grigia” gelese annusa le offerte in palio; la magistratura riduce ai minimi termini le già erose speranze di mantenere qualche pesce medio-grande in libertà, conseguentemente anche un’eventuale restaurazione si profila quale impresa non da poco.

Per queste ed altre ragioni è ora di serrare le fila.

 

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