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Il modello mafioso
(e la mafia) a Rosarno

Di Norma Ferrara il . Calabria

“Qui non si vede davvero dove siano finiti i tanti soldi della cocaina che la ‘ndrangheta gestisce in giro per il mondo”. Così descrive il paese di Rosarno, Antonello Mangano, giornalista e scrittore, autore del libro “Gli africani salveranno Rosarno” edito da Terrelibere, nel 2009. A Rosarno lui c’era andato alcuni anni dopo l’arrivo dei lavoratori stagionali e le prime denunce sulla situazione in cui vivevano i migranti. C’era ritornato lo scorso anno dopo il ferimento di due immigrati. Da un anno segue in silenzio le vicende di questo posto in cui non si intravedono  case lussose o servizi per il pubblico. Ma agrumeti,  lavoratori stagionali in rivolta,  omicidi, rapine e il controllo del territorio che non sembra né dello Stato né (soltanto) della ‘ndrangheta. Di questa terra, di una rivolta raccontata in maniera semplicistica e schematica, dei migranti trasferiti e di un’anomalia calabrese che qui resiste, e all’interno di una “normalità” cui tutti desiderano tornare, parliamo con il giornalista,  Antonello Mangano.

 Caso Rosarno: ha riempito pagine di giornali e inviati di molte tv si sono precipitati a riprendere con le loro telecamere la rivolta degli immigrati. Quale immagine, fra quelle che hai visto, restituisce quello che stava accadendo in quei giorni?

C’è un’ immagine che racconta molto, ed è quella del giovane ragazzo della famiglia Bellocco, arrestato per resistenza a pubblico ufficiale. Questo ci dovrebbe far riflettere sul tipo di mafia che c’è a Rosarno. Quando parliamo di mafia abbiamo tutti in mente una organizzazione con la coppola, sul modello palermitano. Una mafia che tende ad apparire, a gestire la pax mafiosa sul territorio e cerca di imporre un suo sistema di regole. A Rosarno secondo me non siamo di fronte a questo tipo di mafia, e quest’immagine rimane un grosso limite da superare nell’analisi dei fatti di Rosarno.  Quella che in questi giorni in Tv hanno chiamato normalità, è costellata da fatti di cronaca: attentati continui, omicidi, anche di ragazzini ed anziani. La mafia in senso stretto a Rosarno è rappresentata dai Bellocco e dai Pesce. Durante questa rivolta, un membro della famiglia Bellocco – come dicevamo –  è stato arrestato, e  ha subìto il danneggiamento della sua automobile, uno della famiglia Pesce si è trovato la casa circondata da lavoratori africani. Questo è significativo. Inoltre,  alla mafia in senso stretto, in paese, si accompagna tutto un atteggiamento, un modo di fare, che per esempio spinge i ragazzini rosarnesi a comportarsi in modo mafioso, per imitazione, per guadagnare rispetto,  e rispondere ad una personale aspirazione a diventare i futuri Bellocco e Pesce.

Una lucida analisi dell’ex sindaco Lavorato sul tuo portale, Terrelibere.org, racconta di una ‘ndrangheta che dopo gli anni ’70 prende parte al business delle arance. Oggi quanto le ‘ndrine  incidono sulla situazione dei lavoratori a Rosarno?

C’è un’ economia delle arance che muove milioni di euro: dal trasporto, all’ impacchettamento, al commercio degli agrumi, anche estero. Nel commercio di grandi quantità di arance, come sottolinea Lavorato nella sua analisi fra le più  mirate di questi giorni, dagli anni ’70 la ‘ndrangheta ha fatto il suo ingresso nel settore trasporti, all’interno delle filiera di distribuzione. Quindi c’è un’economia in grande in cui la ‘ndrangheta ha il suo ruolo e i suoi interessi economici. Accanto a questa però c’è anche una piccola economia, quella del piccolo terreno che produce arance. Anche li si muovono alcune economie, come quelle del caporalato nella raccolta. A questa, ad esempio, si possono interessare i piccoli delinquenti come Fortugno, il rapinatore che lo scorso anno venne riconosciuto da uno degli africani feriti a Rosarno. Cosi il problema diventa anche di linguaggio:  si può chiamare mafioso o no, quel ladro? Serve capire dove è possibile distinguere il comportamento mafioso dalla mafia, e dove coincidono. A Rosarno ci sono elementi che sfuggono al modello criminale che abbiamo in mente. Si tratta, infatti, di una realtà molto più articolata di quello cui si pensa. In queste settimane – è chiaro – che da tutto il mondo si voglia sapere solo:  dietro questi fatti c’è la  ‘ndrangheta? c’è razzismo? ma purtroppo non è utile assistere a semplificazioni o schematizzazioni di questo genere.  

Schemi e sintesi che hanno portato la cittadinanza a difendere l’immagine del paese dal racconto che ne davano i giornalisti. Tutte le tv avevano i fari puntati su di loro ma nessuno ha provato a far uscire da Rosarno la denuncia di questa situazione. Sono rimasti sulla difensiva,  anziché cogliere l’occasione per raccontarsi?

I giornalisti, a mio avviso, qui come a Lampedusa, si sono concentrati sul binomio razzista – o non razzista. Quello che accade a Rosarno però è raccontato dalle pagine locali dei quotidiani. La gente è assuefatta da fatti criminali, e talvolta anche i migranti. Penso al ragazzo ghanese cui hanno bruciato la macchina dopo la silenziosa e pacifica manifestazione (quella del no allo slogan contro la mafia). Rispetto ai giorni della protesta non ha fatto nulla, è rimasto in silenzio. Quello –  ahimè –  è stato un ottimo esempio di integrazione. Negativa. Ma il fatto continua a rimanere uno solo: non bisogna aspettare questi episodi di violenza che attirano l’attenzione nazionale per accorgersi di cosa c’è a Rosarno, di quello che c’è anche nei paesi intorno a Rosarno. Al di là della rivolta, e degli africani. Fare una manifestazione non contro la realtà allucinante in cui vivi ma contro i media che ne hanno dipinto qualche pagina, nel bene o nel male, è grave. Una manifestazione forse andava fatta anche dopo altri omicidi, ma per questi nessuno si ribella. Se a danneggiarti la macchina è un tuo compaesano, taci. Se lo fanno degli africani, lavoratori stagionali, fai la manifestazione e ti ribelli. Questo è stato l’atteggiamento della maggior parte dei cittadini di Rosarno in queste settimane.

Quest’anno, rispetto all’anno scorso, si è tentato di raccontare su quel territorio dinamiche mafiose che si intrecciano con caporalato e sfruttamento lavoratori stagionali. Cosa i media non sono riusciti a cogliere di questa rivolta? C’è stata a tuo avviso una semplificazione un appiattimento?

Il problema dei media è che non riescono ad uscire dalla semplificazione. Ho provato più volte a raccontare di questa mafia diversa, e lo stesso vale per lo sfruttamento e il caporalato, quando mi hanno chiesto di farlo. Ho pubblicato inoltre  un reportage sul Burkina Faso scritto da Gabriele Del Grande. Da li partono alcuni degli immigrati diretti a Rosarno. Il reportage racconta di persone che facevano vedere le foto di Rosarno ai futuri lavoratori in partenza. Loro erano contenti di partire, arrivare in Italia, anche se a fare sacrifici, trovare un modo per andare avanti,  mettere da parte un po’ di soldi per continuare il loro viaggio. I migranti in partenza sanno benissimo che si tratta di forme di sfruttamento, ma  lo percepiscono come un percorso. E non è a questo che si sono ribellati, perché questa è al contrario per loro un’opportunità.  Ora all’interno di questo percorso però se arriva qualcuno che decide di spararti addosso, tu puoi decidere di non tollerarlo. Gli africani l’hanno fatto per questo, ma i giornalisti non l’hanno raccontato, a mio avviso, ciò ha fatto perdere la dimensione dei fatti e la ragione della rivolta: a Rosarno la rivolta scoppia contro la violenza continua. Serve capir
e se quella violenza su quel territorio era tollerabile o meno. Per gli africani alcune settimane fa non lo è stata e hanno scelto di dimostrarlo. Altri ragionamenti su mafie o razzismo, in questo caso, non hanno senso. Loro stavano facendo un percorso e qualcuno ha deciso  di romperlo, sparando. Questi sono i fatti, a mio avviso.

Cosa dicono oggi gli abitanti di Rosarno?

Se la gente dice “vogliamo tornare alla normalità”, è questa normalità è Bogotà, cosa puoi dirgli? Fatelo. Molti giovani cui non sta bene, decidono di andare via da Rosarno, da molti anni è cosi. Altri restano. Per molti, quelli che restano solitamente, il mito del mafioso diventa preponderante.  Questo però non dobbiamo dimenticarlo è un territorio in cui sino a pochi anni fa, c’era il modello antimafia dell’ex sindaco Giuseppe Lavorato, quello dello sviluppo e del lavoro onesto. Sino al 2003, c’era l’amministrazione Lavorato, ed era stata eletta al primo turno con un plebiscito. Non sono trascorsi molti anni,  la speranza di cambiamento continua ad esserci. Solo che dovrebbe essere raccolta dalla politica che su quel territorio è completamente assente. A Rosarno si può costruire un cambiamento, recuperando quel percorso.  

 

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