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Operazione Pandora – Matrix

Di Luigi Spera il . Campania

Grazie alle false perizie firmate da uno psichiatra compiacente, che lo dichiaravano senza dubbio non sano di mente, Giuseppe Gallo era riuscito a stare lontano dal carcere e a tenere alla larga i processi, il tempo giusto per organizzare e tenere in mano le redini del narcotraffico della zona vesuviana. E da Boscotrecase dove controllava lo storico e potente clan Limelli-Vangone, il rampollo, figlio del boss Pasquale Gallo ‘o russ’, era riuscito a passare indenne nelle maglie della legge che sempre più andavano stringendosi per le altre numerose cosche dell’area sud della provincia di Napoli, sgominate di recente. Al punto di riuscire a inserirsi anche in quelli che erano stati gli spazi lasciati vuoti di importanti trafficanti di livello europeo del calibro di Alfonso Annunziata, finiti in cella nel corso degli ultimi anni in operazioni di contrasto alla camorra. Le dichiarazioni di alcuni pentiti, inchieste e procedimenti che tante volte portavano lì nel cuore dell’area vesuviana, e le successive invasive indagini della guardia di finanza, coordinata dall’antimafia napoletana, hanno però messo la parola fine, all’alba di ieri, al dilagare anche di Pepp ‘o pazz’. E a finire in cella con il capoclan, i suoi familiari e una ottantina di affiliati e gregari, è stato anche il direttore dell’ospedale giudiziario di Aversa Adolfo Ferraro. Il medico che aveva trattato ‘con i guanti’ la pratica del 34enne di Boscotrecase, riconosciuto in campo internazionale come uno dei maggiori importatori di cocaina d’Europa, e noto allo Stato, alle sue casse, solo per essere il titolare di una pensione di invalidità ‘meritata’ grazie alla sua ‘falsa’ pazzia, certificata da Ferraro. Quei 699 Euro al mese che nulla sono rispetto ai milioni di euro che passavano per le mani del broker della coca, molti dei quali sequestrati ieri, ma che sono ora diventati il simbolo della protervia dei clan e della connivenza di alcuni insospettabili esponenti delle professioni, che hanno reso possibile che lo Stato fosse preso in giro, al punto che soldi pubblici finissero direttamente nelle casse del clan. Ma ad aiutare il boss e i suoi sodali a sottrarsi al braccio forte della legge, sono stati però anche altri colletti bianchi, pure finiti in manette: due dipendenti del tribunale di Torre Annunziata in particolate, che ‘soffiavano’ prove ai magistrati che indagavano sulla cosca, e un promotore finanziario che, con le sue competenze era riuscito ad aiutare a ripulire milioni di euro, utilizzando i proventi del traffico di droga e delle altre attività illecite che facevano capo alla cosca, intestando a prestanome società e attività legali di ogni tipo. Il solito puzzle criminale che ha definito, una volta mandato a posto ogni singolo pezzo, un quadro di fondamentale valenza probatoria. Un castello accusatorio tirato su in oltre 5 anni di indagini. Un accurato lavoro di indagine tra intercettazioni telefoniche e ambientali, sequestri e altre investigazioni che hanno tenuto impegnato il Ros dei carabinieri e il Gico della Guardia di Finanza per un lunghissimo periodo.

L’INCHIESTA. Le indagini della Dda napoletana, concretizzatesi ieri mattina all’alba con gli 86 arresti dell’operazione “Pandora-Matrix”, hanno preso le mosse nel lontano 2004 dalle dichiarazioni del pentito Saverio Tammaro, oltre che di altri collaboratori di giustizia, raccolte nell’ambito del processo ‘Scafo’ che ha portato già in cassazione a una cinquantina di condanne. Tammaro, vertice di una cosca con base operativa a Scafati, cerniera tra le province di Napoli e Salerno, aveva parlato oltre che dei suoi diretti referenti, anche, tra gli altri, di alcuni personaggi vicino al clan Limelli-Vangone. Da lì, di conversazione in conversazione, di sequestro in sequestro, gli inquirenti hanno raccolto le prove a carico delle 86 persone arrestate ieri (cinque sono fuggite alla cattura), a vario titolo, per i reati di associazione cammorristica finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, al riciclaggio e reimpiego di danaro sporco, estorsione, detenzione e porto illegali di armi, corruzione di pubblici ufficiali e favoreggiamento personale.

LE INDAGINI. Le serrate investigazioni raccolte che hanno portato il gip a firmare l’ordinanza, hanno definito la responsabilità dei vari indagati nell’ambito del clan Limelli-Vangone. Definendo ruoli e incarichi di ogni singolo affiliato. Ricostruendo numerosi episodi di spaccio e vendita di droga, oltre che le grandi importazioni di cocaina dal Sudamerica che, passando per la Spagna, arrivavano di solito nascosti in grandi autoarticolati, fino ai comuni sotto il controllo della cosca: Boscotrecase, Boscoreale, Torre Annunziata e altri comuni vicini. La dove, come anche in alcuni centri del salernitano e della provincia di Latina, oltre che di Roma e della Sicilia, alimentavano le sempre ‘assetate’ piazze della droga, il cui consumo non conosce crisi. Un business milionario portato avanti con successo, i cui unici ‘impedimenti’ sono stati solo i numerosi sequestri di droga che hanno ‘bruciato’ più volte gli introiti del gruppo. Una cosca, quella organizzata e diretta da Giuseppe Gallo, cui sono riconducibili anche una serie di estorsioni ai danni di imprenditori e commercianti della zona costretti al pagamento del più tradizionale pizzo, o all’assunzione di lavoratori ‘segnalati’ dal clan, oppure semplicemente ‘invitati’, con metodo tipico dell’intimidazione mafiosa, a fornirsi per prodotti alimentari e di altra natura dalle ditte collegate al clan.

LA DROGA. Si tratta però in questo caso solo di una parte minore delle lucrosissime e illegali attività del clan, che grazie alle capacità di Pepp ‘o pazz poteva contare su un fiorente traffico di stupefacenti. Quello si, il vero affare da milioni. Quintali di cocaina, hashish e marijuana che, sulla direttrice spagnola arrivavano in Campania, direttamente grazie ai cartelli colombiani con base europea nella penisola iberica e che sulla direttiva spagnola fanno arrivare la preziosa polvere bianca nel vecchio continente. E proprio alla luce delle prove raccolte è emerso che il clan Limelli-Vangone rappresentava a livello europeo una delle principali holding della coca. Le enormi partite che riusciva a organizzare Gallo venivano poi divise tra i vari gruppi di spaccio più o meno organizzato sul territorio. Per avere un’idea del volume delle importazioni basti pensare che il clan, secondo i calcoli delle fiamme gialle acquistava circa 15O chili di cocaina purissima al mese. Una volta tagliata, in pratica una montagna di droga. Solo nel corso delle indagini, sono stati sequestrati dal Gico, nelle diverse occasioni in cui i finanziari sono riusciti a intercettare i ‘furbi e organizzati’ corrieri, oltre 750 chili di droga che ‘ a occhio e croce’ avrebbe fruttato ricavi per oltre 75 milioni di euro e oltre.

L’ASCESA CRIMINALE. Il perchè di un traffico da capogiro di questa entità, si spiega in diversi fattori. Tra questi anche il fatto che, dopo l’uscita di scena, nell’ambito del processo ‘Scafo’ di un personaggio di grandissimo peso criminale e imprenditoriale come Alfonso Annunziata ‘a calabrese, anche lui di Boscoreale, al vertice del clan Aquino-Annunziata, Gallo, ha potuto inserirsi in quello spazio lasciato vacante del super-boss che aveva da Amsterdam il suo centro operativo di acquisto e smistamento di cocaina, in diretto accordo con i narcos colombiani. Sono stati gli anni in cui le casse del clan Limelli-Vangone, avvantaggiato anche dalla difficoltà di altri clan, si sono ingrossate. E che gli affari andassero a gonfie vele, è testimoniato anche dai numerosi sequestri effettuati dalla Guardia di Finanza, di cui ieri è stata dato conto: milioni e milioni di euro per i quali l’unica preoccupazione del clan era il riciclaggio.

RICICLAGGIO. Il clan, anche grazie alla complicità, di direttori di banca e imprenditori compiacenti, riciclava e reimpiegava i proventi delle attività illecite investendo
decine di milioni di euro in svariate attività imprenditoriali, soprattutto nel settore della ristorazione, della produzione e commercializzazione di abbigliamento, dell’edilizia e dell’autotrasporto, nonché nell’acquisto di decine di immobili e terreni di pregio, cavalli da corsa e imbarcazioni. Tutto rigorosamente intestato a prestanome.

COLLETTI BIANCHI. Uno dei dati più sconcertanti emerso a seguito di alcune indagini avviate dalla Dda di Salerno e transitate poi nei fascicoli di indagini della magistratura napoletana, è che il clan, avrebbe investito ingenti somme di denaro in sofisticati prodotti finanziari, grazie alla complicità di un intermediatore finanziario salernitano. I giri di denaro però sono stati ugualmente rintracciati dalla finanza che ha potuto così ieri far inserire nell’ordinanza un lungo elenco di beni sequestrati 65 aziende, 16 partecipazioni societarie, 210 immobili, 160 automobili, per un valore complessivo di 60 milioni di euro. A questi sono sono poi aggiunti 550 rapporti bancari di cui è stato ancora impossibile risalire alla reale consistenza economica. Oltre che al promoter, tra i favoreggiatori del clan sono stati poi arrestati anche due dipendenti del tribunale di Torre Annunziata che, dietro compenso da parte di esponenti della cosca, sottraevano e occultavano prove che sarebbero state utili per incastrare il clan.

LO PSICHIATRA. Figura di massimo rilievo all’interno dell’ordinanza che ha sgominato i Limelli-Vangone il direttore dell’ospedale giudiziario di Aversa. E’ infatti lui, lo psichiatra Ferraro, il ‘colletto bianco’ che attestando la falsa patologia psichiatrica di Giuseppe Gallo, ne aveva favorito la latitanza, iniziata dopo una scarcerazione per motivi di salute,e terminata lo scorso marzo con l’arresto del boss a Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina. I finanzieri hanno capito che la patologia era del tutto simulata grazie a intercettazioni telefoniche e ambientali, oltre che alle dichiarazioni di alcuni pentiti di camorra. Le indagini, le manette, e la messa in scena è finita.

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