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Mafie cinesi

Di Giorgio Mottola il . Internazionale

Quartiere Esquilino di Roma. Un summit di mafia si svolge in un ufficio di consulenza fiscale di via Principe Amedeo, al civico 126. Guardiaspalle dai tratti orientali presidiano con discrezione la via affollata di furgoni in doppia fila per lo scarico delle merci. Nello studio, che sta di fronte a un paio di negozietti indiani, Salvatore Giuliano, boss del potentissimo clan di Forcella, stringe la mano a uomini dagli occhi a mandorla, vestiti con costosissime giacche e cravatte. Tutto è iniziato al principio degli anni ’80. Deng Xiaoping avvia la politica della «porta aperta»: mette in un cantuccio l’ortodossia maoista e spalanca la Cina al libero mercato. Obiettivo è arricchirsi il più possibile e con la massima velocità, facendo poca attenzione a come ciò avvenga.

Nel 1993, il ministro della polizia cinese Tao Siju, nega l’amnistia agli studenti che manifestarono in piazza Tienanmen, ma apre alle triadi: “I membri delle triadi non sono tutti dei gangster”, disse pubblicamente, “se essi sono dei buoni patrioti, assicurando la prosperità di Hong Kong, noi dovremo rispettarli”. Un anno dopo a Napoli, durante la Conferenza mondiale sulla criminalità transnazionale, il ministro della giustizia, Xiao Yang, ammise che in Cina erano presenti, all’epoca, 150 mila organizzazioni criminali, a cui erano collegati altri 600 mila gruppi di media importanza. Ma le Triadi, la potente organizzazione criminale nata in Cina nel XVII secolo e in seguito radicatasi ad Hong Kong, c’entra poco con Salvatore Giuliano e con gli altri camorristi che fanno affari con i cinesi, come i Mazzarella e i Casalesi. In Italia non è mai stata dimostrata l’esistenza di una cupola orientale che centralizzi e coordini le attività criminali. Ci sono, invece, una serie di piccoli e medi gruppi, legati ciascuno al proprio territorio, caratterizzati da una rigorosissima gerarchia interna, ma autonomi dalle altre bande cinesi.

Il rapporto della Procura nazionale antimafia del 2008 ne ha distinti due tipi: le organizzazioni “drago con testa e coda” e quelle “draghi senza testa e senza coda”. Le prime sono più tradizionaliste, hanno abbandonato le vecchie ritualità (come il giuramento e la “pungitura” per l’arruolamento), ma sono molto vincolate al valore del “guanxi”, il senso appartenenza ad un gruppo per rapporti di sangue ed economici; è il caso dell’“Alleanza orientale” e della “Testa di tigre” in Lazio. I “draghi senza testa e senza coda” sono invece le seconde generazioni. Giovani senza scrupoli, che si riuniscono in bande spesso in guerra tra loro. Gestiscono un’economia criminale per lo più parassitaria: estorsione, sfruttamento della prostituzione e spaccio di stupefacenti. Sono radicati soprattutto al Nord, ma in Campania si sono fatti vivi qualche anno fa. Nel maggio del 2006 una di questa bande, provenienti da Prato, scese a San Giuseppe Vesuviano per una spedizione punitiva. In sei fecero irruzione nel ristorante cinese “Hotel Villa Paradiso”. Accerchiarono Zhang Shidong, 28 anni, più o meno la stessa età dei membri del commando, e lo ammazzarono a colpi di machete.

Shidong apparteneva al gruppo rivale. La contesa aveva origini commerciali, riguardava il controllo di una società di trasporti a Prato. I boss cinesi in giacca e cravatta griffate che Salvatore Giuliano incontrava a Roma hanno business ben più strutturati rispetto alla seconde generazioni criminali. Il giro di affari più importante ruota innanzitutto intorno alla contraffazione. La criminalità esercita un tutoraggio sulla merce durante ogni fase del processo: abbatte i costi di produzione, falsifica le documentazioni per il trasporto, aggira le difficoltà doganali dello sbarco, e la impone nella vendita al dettaglio. La camorra, e nel caso in questione Salvatore Giuliano, entra in campo nella parte finale. La natura del rapporto con i gruppi criminali cinesi, tuttavia, ha subito diverse evoluzioni nel corso del tempo.

E l’ex boss di Forcella non è stato certo un pioniere, visto che i suoi rapporti economici con la Cina sono iniziati nel 2000. La camorra aveva compreso le opportunità che si dischiudevano con le aperture liberiste di Xiaoping prima di qualsiasi economista: cercarono subito un rapporto con le triadi. Più veloce di tutti è stata l’alleanza di Secondigliano e soprattutto Piero Licciardi, boss di Secondigliano. Uno dei primi e più importanti business tra camorristi e cinesi risale alle fine degli anni ’80. Di mezzo non c’era né droga né traffici d’armi. Ma un merce molto più banale e comune: trapani. Trapani di finta marca Bosh, precisamente. Prodotti contraffatti che venivano commercializzati in Germania dove i clan Licciardi, Contini e Mallardo avevano una posizione di forza. Lo ha raccontato Raffaele Giuliano in un interrogatorio del 14 giugno 2000: «Acquistavano i trapani a Hong Kong e visto che il giro di affari ammontava a oltre 100 milioni al mese avevano anche pensato di acquistare la fabbrica che li produceva». Un commercio che garantiva dunque entrate molto consistenti per i clan. La stretta di mano tra Salvatore Giuliano e i potenti capi dei gruppi criminali cinesi in Italia, che vivono barricati in lussuosissime ville all’Esquilino, sancisce una dinamica diversa del passato nelle relazioni tra le due organizzazioni mafiose. Non c’è più una joint venture: tra clan campani e criminali cinesi non ci sono investimenti. Ai boss cinesi Salvatore Giuliano offriva un servizio: la facilitazione dell’ingresso delle merci contraffatte in Italia e il supporto logistico nell’immagazzinamento e nella distribuzione. «Nel porto di Napoli», spiega il colonnello Paolo La Forgia della Dia di Roma, che ha coordinato l’operazione “Grande Muraglia” «la camorra ha funzionato per anni da dogana parallela». Particolare non da poco dal momento che approda a Napoli il 70% dei 500 mila container, trasportati in Italia dalle 3 società cinesi di navigazione, “China Shipping”, la “K Line” e la “Cosco”. Sarà per questo che il 21% dei sequestri di merce contraffatta, secondo la Guardia di Finanza, avviene in Campania, seguita dalla Lombardia con l’11. Non sempre, però, ci sono di mezzo i clan napoletani. I pesci più piccoli si rivolgono alle società di sdoganamento.

 I medi imprenditori cinesi, che hanno attività soprattutto nel Lazio, scendono a Napoli, affittano un interprete per qualche giorno e si mettono alla ricerca dell’agenzia che offra loro il prezzo migliore. Una società di sdoganamento dovrebbe occuparsi delle pratiche burocratiche legate al ritiro della merce che arriva nel porto napoletano dalla Cina. E nel capoluogo partenopeo ce ne sono alcune che lavorano in modo serissimo. Altre, invece, per lo più a conduzione familiare, hanno sede in sottoscala di vecchi condomini dalle parti di via Marina e agiscono in piena zona grigia per semplificare lo sdoganamento di qualsiasi tipo di merce. È invece con i pesci grossi che Salvatore Giuliano trattava. Da Forcella era fuggito a Roma dopo che i suoi fratelli, Luigi, Guglielmo e Raffaele erano diventati collaboratori di giustizia, sancendo di fatto la fine del clan. Perno centrale del suo business con i cinesi erano Luigi e Vincenzo Terenzio, in affari anche con i Casalesi e, anni prima, con la banda della Magliana. Svolgevano due compiti. Procurare i magazzini per lo stoccaggio della merce contraffatta, localizzati tra Cassino, San Giuseppe Vesuviano, Terzigno e la Puglia. E soprattutto riciclare i proventi dei traffici, che sono paragonabili a quelli della droga. Nel Marzo scorso la Dia ha sequestrato beni, intestati ai Terenzio o ai loro prestanome, per un valore complessivo di 150 milioni di euro: 41 case, un albergo di lusso, 48 conticorrenti, 22 terreni, 10 società e due imbarcazioni. Dalle carte delle inchiesta “Grande Muraglia” e “Ultimo Imperatore”, partite dopo il pentimento di Salvatore Giulian
o, si scopre che la merce non fa un percorso rettilineo, ma triangolare.

Prima di giungere in Italia fa scalo a Singapore. Qui la documentazione viene falisficata per la seconda volta (la prima avviene al momento dell’imbarco dichiarando meno merce di quanta se ne trasporta, per pagare meno dazi): la Cina, in questo modo, scompare dalle bolle come paese di imbarco dei container, sostituita da Singapore che desta meno sospetti durante i controlli. Una volta approdata in Italia, nel porto di Napoli, la merce viene trasportata nei paesi della Vesuviana, dove subisce l’ultimo ed essenziale processo di trasformazione: la rietichettatura con i falsi marchi Repaly, Prada, Gucci e tanti altri della moda italiana e non. I laboratori cinesi del triangolo d’oro del tessile campano, San Giuseppe, Terzigno e Ottaviano, svolgono ormai soprattutto questa funzione. Anche loro hanno subito la concorrenza della madrepatria. Infatti, con il passare del tempo, persino il costo della manodopera cinese sfruttata e in nero si è dovuto avvicinare ai tariffari del lavoro sfruttato e in nero italiano.

 L’organizzazione di un laboratorio cinese, secondo un rapporto dello Scico, prevede una gerarchia di questo tipo: il “laoban”, l’imprenditore, al vertice; lo “zagong”, il lavoratore generico che tiene pulito il laboratorio, taglia i fili dagli abiti, piega i vestiti, percepisce in media non più di 400 euro al mese; lo “shougong”, che stira, sa cucire ma con una bassa qualità, guadagna 600 euro; e infine il “che gong”, l’operaio di grado superiore che arriva a 8 mila, 12 mila euro all’anno. Con questi costi, troppo alti rispetto a quelli della madrepatria, i laboratori cinesi si occupano sempre più di produzione di alta qualità. In passato c’è chi ha scritto di aste clandestine tenute in Campania dai grossi ateliers per subappaltare in nero la produzioni delle proprie collezioni. In realtà, il procedimento, come ha dimostrato l’inchiesta “Grande Muraglia”, è molto meno occulto e complesso. La Dia di Roma nel retrobottega di alcuni negozi di abbigliamento cinesi e italiani ha trovato dei raccoglitori con foto delle ultime sfilate di moda: fungevano da cataloghi. I commercianti le guardano le immagini delle modelle e scelgono gli abiti dell’alta moda da commissionare ai piccoli laboratori clandestini.

Per la produzione industriale, la contraffazione dei marchi, fatta in Italia è molto meno redditizia di quella realizzata in Cina. Non è conveniente solo importare dalla Cina, ma anche esportare in Cina. Lo ha fatto per anni Nicola Schiavone, guadagnandoci un mucchio di soldi. Lo scorso giugno il pm di Salerno Angelo Frattini ha concluso l’inchiesta nei confronti suoi e di altre 22 persone. Nonostante l’omonimia, Schiavone non ha nulla a che vedere con i Casalesi. È il titolare di due società: l’Aemar e la Duesse, che si occupano di import ed export.

Ufficialmente in Oriente mandava materie secondarie, derivanti dalla lavorazione dell’immondizia. In realtà, le sue società non disponevano nemmeno dei mezzi necessari per compiere la trasformazione. I rifiuti, provenienti soprattutto da industrie del nord, venivano direttamente imbarcati nel porto di Salerno, con la Cina come destinazione. Tutto era pensato nei minimi particolari: documenti di trasporto falsi, tragitti alternativi per eludere i controlli e persino fotografie dei rifiuti inviati agli acquirenti. Il ciclo dell’immondizia non andava a concludersi in qualche remota discarica cinese. Schiavone, infatti, non pagava i cinesi per smaltire quei rifiuti; altrimenti sarebbe stato più conveniente seppellirli da qualche parte in Italia. L’imprenditore campano li vendeva. La monnezza, in Cina, tornava, infatti, ad essere merce. Il secondo principio della termodinamica viene sconfessato: il ciclo dei rifiuti faceva un balzo a ritroso e ripartiva dal punto iniziale. In quei container maleodoranti, partiti da Salerno e approdati nell’estremo oriente, chi li aveva comprati ci metteva dentro le mani. Trasformava quel materiale nauseabondo in giocattoli, vestiti e occhiali. Gli oggetti, così rigenerati, facevano a quel punto il viaggio inverso: dalla Cina agli scaffali dei negozi italiani.

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