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Gioie e dolori della catturandi di Palermo

Di Lorenzo Frigerio il . Recensioni

Dopo la cattura di Gianni Nicchi e Gaetano Fidanzati, il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha voluto ricordare che le misure di contrasto alle mafie prese dall’attuale governo sono da considerare “all’avanguardia nel mondo”. Lasciando ad altri il giudizio su quanto di propaganda politica ci sia nelle affermazioni del titolare del Viminale, soffermiamo la nostra attenzione sui dati riguardanti i latitanti: nei diciotto mesi di governo Berlusconi, sono stati arrestati 21 dei 30 latitanti più pericolosi, mentre in totale sono stati arrestati 299 latitanti (ben l’83% in più dei precedenti diciannove mesi, sempre secondo il Viminale).

Sono sicuramente numeri significativi che ci restituiscono innanzitutto il valore della grande professionalità raggiunta dalle forze dell’ordine nella ricerca e cattura dei più pericolosi criminali. Una preparazione forse sottovalutata o data per certa, come se non fossero necessari mezzi, energie, risorse nella costruzione di approcci investigativi all’avanguardia e di figure professionalmente ineccepibili. Leggendo “Catturandi”, scritto da I.M.D., un poliziotto che mantiene l’anonimato in quanto membro della sezione omonima della Squadra mobile di Palermo da più di dieci anni, si possono cogliere tutte le fatiche, tutte le rinunce, tutti i pericoli che uomini così preparati per la lotta mortale contro la mafia sono pronti ad affrontare, pur di raggiungere l’obiettivo: la cattura di temibili latitanti.

Per Cono Incognito, primo dirigente della Polizia di Stato che si onora dell’essere stato membro della Catturandi di Palermo, l’autore resta il “Maresciallo dei telefoni” così soprannominato in ragione delle sue funzioni: “Per uno come me, che per mestiere passa giorni e notti in assoluto silenzio, ad ascoltare le conversazioni dei ricercati, era venuto il momento di parlare, di scrivere”. La molla che spinge l’autore a raccontare la sua esperienza sono gli arresti di importanti boss della mafia siciliana, da Bernardo Provenzano ai Lo Piccolo, Salvatore e Sandro, padre e figlio, finiti in manette insieme. Dalla lettura si trae il convincimento che la prima qualità di un buon cacciatore di latitanti è sicuramente la pazienza: ci vogliono ore e ore di appostamenti, di ascolto delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, spesso in totale solitudine, mentre i pedinamenti e le attività sul territorio sono più rare. Servono poi altre caratteristiche prima umane che professionali per svolgere questo lavoro.

Coraggio ed abilità devono combinarsi sapientemente con il fiuto – o ce l’hai o non ce l’hai sembra suggerire il libro – e con la cautela nel leggere i segnali e interpretare i movimenti di familiari e fiancheggiatori, ma anche con una buona dose d’improvvisazione di fronte agli imprevisti che sorgono quando stai inseguendo un fuggiasco. Occorre infine saper vincere la ragnoia e la frustrazione per risultati che spesso non sembrano ricambiare delle tante rinunce sopportate. Il segreto è staccare appena possibile e dedicarsi con totale impegno ai propri affetti, alla propria vita, sapendo che presto la battaglia è destinata ad assorbire ogni energia. Anche sui fattori che possono contribuire ad arresti eccellenti, l’autore del libro ha le idee chiare: “La cattura di un latitante dipende esclusivamente dalle risorse impiegate da entrambe le parti, dal grado di interazione e integrazione del ricercato con i luoghi in cui si nasconde, con le persone che lo coprono e, perché no, anche da una buona dose di fortuna”.

Proprio delle risorse e del loro impiego ci sarebbe molto da discutere, se si pensa che in alcuni casi mancano i soldi per rifornire di carburante le vecchie auto di servizio o gli agenti sono costretti ad usare i propri veicoli per il pedinamento di sospetti. La forza di un latitante risiede soprattutto nella loro permanenza all’interno della famiglia e del territorio d’origine. Sembra un paradosso, perché questa permanenza è anche la loro debolezza, ma è una necessità vitale e le vicende dei boss arrestati recentemente supportano tale assunto. Otto anni di lavoro per catturare Provenzano, un paio di anni per i due Lo Piccolo. Tutti questi capi avevano scelto di puntare su una ristretta cerchia di parenti e di sodali. Tolti di mezzo loro, è stato più facile pervenire alla loro cattura.

È interessante notare come anche al navigato esponente delle forze dell’ordine non sfugga l’inutilità anche degli ultimi arresti, che possono davvero dare la spallata definitiva per abbattere Cosa Nostra, nel caso questi provvedimenti di polizia non siano poi seguite da politiche di sviluppo e di prevenzione: “Non sono sufficienti le azioni di repressione dello Stato. Queste sono certamente necessarie, ma per giungere al risultato che si è detto, devono essere accompagnate da investimenti economici, sociali e culturali che tolgano substrato sociale e ideologico alla strategia mafiosa- clientelare di cui le organizzazioni criminali e i loro capi si nutrono e con cui si sorreggono”. Proprio dalla disamina della figura del fiancheggiatore, nelle sue molteplici condotte concretamente descritte, emerge con chiarezza come occorra levare consenso alla mafia se si vuole sperare di vincere la battaglia.

Non sempre abbiamo a che fare con persone mosse dalla paura, ma spesso dal tornaconto personale. Sempre meno omertà e sempre più interesse: sembra questo il quadro odierno che si ha nell’analizzare i comportamenti di quanti si prestano a favorire la latitanza di un capomafia ricercato. Interessanti sono anche le analisi condotte dall’autore sugli strumenti a disposizione delle forze dell’ordine, a partire proprio dalle vituperate intercettazioni, definite “il pane quotidiano delle investigazioni”, per finire alle attività di sorveglianza e pedinamento di coloro che possono condurre ad arrestare il boss inseguito per anni.

Insomma come suggerisce nell’introduzione Leonardo Guarnotta, magistrato di lunga e onorata carriera, compagno di battaglie giudiziarie nel pool antimafia di Falcone e Borsellino, si tratta di una “lucida e suggestiva descrizione dall’interno della complessa, faticosa e febbrile attività volta a catturare pericolosissimi boss”. Una seconda parte del libro è dedicato all’analisi dei procedimenti e delle forme di comunicazione tra mafiosi, che il “Maresciallo dei telefoni” ha imparato sul campo, grazie all’ascolto di ore e ore di conversazione tra affiliati a Cosa Nostra e all’interpretazioni di segnali e di scritti, quali gli ormai celebri “pizzini”.

La comunicazione viene ritenuta la prima forma di potere del mafioso, potere che viene esercitato all’interno prima ancora che all’esterno della cosca, grazie ad un ferreo controllo del pensiero e della sua trasmissione verbale. Altrettanto ricche di spunti le pagine dedicate al potere mafioso e alla sua trasmissione grazie alle donne di mafia, ormai sempre più coinvolte nella gestione quotidiana degli affari della famiglia. Dopo la cattura dei Lo Piccolo padre e figlio, la caccia continua e l’autore ricorda che la forza della Catturandi di Palermo è la sua normalità: “è gente che, come me, la mattina si alza e accompagna i bambini a scuola, che fa la spesa e litiga con i prezzi per cercare di far quadrare i conti, spesso in rosso. È gente che vive in case normali, che gioca a calcetto con gli amici o fa una corsa in bicicletta, che segue le partite del Palermo allo stadio o davanti alla tv e che litiga per questioni di sport, di politica e d’altro”.

E allora continuiamo a goderci i successi di questi uomini e di queste donne che, secondo l’autore, “più che a Superman o a Wonder Woman, nella vita di ogni giorno assomigliano a Clark Kent”, e pazienza se qualcuno, che non ha alcun diritto, si arroga il merito dei loro successi.

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