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Suicidi e mafie

Di Rosario Cauchi il . Sicilia

La provincia di Caltanissetta, almeno da un decennio, occupa i primi posti, di una classifica tutt’altro che positiva: quella che definisce la percentuale di suicidi.

L’interruzione forzata della propria esistenza, scelta ultima e spesso indotta da circostanze estranee ad ogni previsione, contribuisce alla delineazione di caratteri inquietanti che dovrebbero preoccupare amministratori e comuni cittadini. Il suicidio sembra non avere destinatari privilegiati, qualsiasi individuo può eventualmente incorrervi, anche se sarebbe improprio non ammettere una certa predisposizione fra i ceti maggiormente in difficoltà, economica o psicologica.

 Gela, si sa, rappresenta pur sempre un’eccezione, spesso negativa, di fronte a parametri nazionali e non solo. “Farla finita”, secondo l’etimologia prevalente tra i grandi media, non è sul nostro territorio un’opzione assunta esclusivamente da chi, all’esterno, possa far trasparire una certa condizione di debolezza o sensibilità emotiva: ma si apre, inoltre, a coloro che nella tradizionale oratoria investigativa vengono descritti alla stregua di freddi e calcolatori, anche innanzi ai rischi rappresentati dalla violazione delle leggi penali.

I mafiosi, insomma, o i semplici criminali comuni, non possono, oramai, ritenersi immuni dalla “tentazione”; non sono mancati nel passato episodi contraddistinti dall’assunzione di drastiche scelte da parte di boss o di manovali delle cosche, i quali, destinati a trascorrere buona parte delle loro esistenze tra le mura di un penitenziario, non hanno esitato ad evadere dall’ineluttabile sorte.

Appena un anno fa, a pochi giorni da una significativa ricorrenza, la festa di ognissanti, Rosario Trubia, solo omonimo dell’attuale collaboratore di giustizia già a capo, per un breve periodo, del gruppo “Emmanuello”, stringeva il collo intorno a delle lenzuola e veniva ritrovato dai propri compagni di cella privo di vita.

Ci riferiamo ad uno dei più  “precisi e spregiudicati killer”, stando alla descrizione fornita dagli inquirenti dell’epoca, a disposizione della famiglia Rinzivillo, condannato a due ergastoli a causa degli omicidi di Aurelio Trubia e Andrea Cavaleri, perpetuati nel corso dell’afosa e traumatica estate del 1999, periodo nel quale l’incubo di una nuova guerra di mafia in città rischiò di inverarsi, alimentato dallo scontro interno tra la fazione dei Rinzivillo e quella degli Emmanuello.

Il destino di uno degli attori di quello scontro si risolse, dunque, all’interno di un anonimo bagno del penitenziario di Enna; nessuno, né gli investigatori né tantomeno i familiari, riuscirono, dopo quel novembre, a dare una plausibile spiegazione: per entrambi, infatti, il profilo psicologico di Rosario Trubia si poneva agli antipodi di quello tipico del suicida; troppo spavaldo e sicuro di sé, si disse, per scegliere una tale dipartita.

Le medesime caratteristiche, sociali e psichiche, si riscontrano in colui che al momento dell’arresto, avvenuto la scorsa estate, venne da subito individuato quale una nuova leva del crimine gelese, ovvero il ventenne Calogero Greco, appena condannato per i fatti legati all’incendio dell’automobile e al danneggiamento delle vetrine dell’attività commerciale di proprietà dell’imprenditore Interlici.

Vent’anni ed un pesante precedente penale già in sorte, quest’ultima appare ad una prima disamina la motivazione scatenante del tentativo di suicidio posto in essere dallo stesso Greco: il quale, nella notte tra il 27 ed il 28 novembre, ingerendo talune sostanze destinate ad usi domestici, intendeva interrompere la propria giovane esistenza.

Il tentativo messo in atto non è sfociato in conseguenze più gravi, ma è certamente utile al fine di sgomberare la riflessione da ogni ombra d’equivoco: la spavalderia e la freddezza, solo di facciata, non corrispondono, in molti casi, a concrete condizioni personali. Il suicidio, dunque, quale strumento ultimo, destinato a porre fine ad una quotidianità, presa in mano e dominata, solo all’apparenza, ma in realtà subita ed asfissiante.

Una simile disamina vale, inoltre, per altri precedenti: si pensi, da un lato, alla scelta assunta dall’imprenditore, Salvatore Tomasi, sfiancato dalle pressioni messe in atto da membri della locale criminalità organizzata, pronti a “mangiare” sull’appalto appena acquisito dalla loro vittima; sul fronte opposto, invece, a fare scalpore fu il tentativo, condotto da Marcello Orazio Sultano, titolare della “Sultano Costruzioni srl”, del 20% de “La Nuova Montaggi srl” e dell’ “Impresa Individuale Sultano Marcello”, di togliersi la vita, all’interno del cantiere di Capodarso, nel territorio ricompreso tra le provincie di Enna e Caltanissetta: avviato non appena venuto a conoscenza del provvedimento di sequestro delle attività ad esso riconducibili, emesso dalla Direzione investigativa antimafia nissena, a seguito del suo coinvolgimento entro gli schemi del clan Rinzivillo.

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