Messina Denaro, capo di una «nuova» mafia
Matteo Messina Denaro, 47 anni compiuti ad aprile, latitante da 16 anni, capo mafia intanto perchè «erede» di sangue del «patriarca» del Belice, Francesco Messina Denaro, ma anche perchè è stato capace di diventare «icona» adorata. La «testa dell’acqua» lo chiamano spesso i suoi complici, «adorato come un dio», soprannominato «olio» o «Diabolik». È il capo assoluto di Cosa nostra trapanese, le catture dei latitanti palermitani, Lo Piccolo, Raccuglia e adesso Nicchi secondo alcuni gli hanno fatto salire gli scalini del comando mafioso in Sicilia, ma il ragionamento non sembra corretto perchè lui «capo» c’era già da prima, è al comando di una Cosa nostra diversa, nuova, che non è quella palermitana che vive del «pizzo» ma è quella che a Trapani e non da ora è diventata impresa, gestisce e acquisisce fondi pubblici, interlocuisce con la politica. È la mafia che all’occorrenza sa anche diventare «militare», Matteo Messina Denaro sparava già quando ancora Nicchi, per parlare dell’ultimo latitante catturato, andava a scuola. È il capo di una mafia che in provincia di Trapani è rimasta granitica nella sua organizzazione, con 4 mandamenti operativi, Trapani, Alcamo, Mazara e Castelvetrano, che non ha conosciuto il frantumarsi della mafia palermitana.
Uomo attivo Messina Denaro. Dopo avere partecipato alle stragi del ’93, è stato uno degli uomini di quella «trattativa» della quale oggi parla Ciancimino jr, ma è stato sicuramente uomo di una «trattativa» più recente, finita dimenticata, ma che è stata accertata, quella che passava, gestita dai servizi segreti, per le mani di un ex sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino, che colloquiava con il giovane super boss attraverso «pizzini» molti finiti sequestrati. Vaccarino per questa corrispondenza è stato indagato e poi prosciolto dopo che il Sisde disse che ai pm di Palermo che il suo ruolo era quello di fare l’«infiltrato».
La «mafia» di Messina Denaro è un’altra, è accorta, nasconde i «pizzini» e quando gli uomini d’onore debbono parlarsi evitano le auto e le abitazioni, parlano in aperta campagna o in mezzo ai camion come succedeva tra Grigoli, il «re» del commercio e Filippo Guattadauro, cognato del boss. È una mafia che non chiede il «pizzo» perchè ha le imprese che acquisiscono commesse e finanziamenti pubblici, è Cosa nostra che gestisce i centri commerciali, Messina Denaro ne aveva promesso uno per Bernardo Provenzano, «il guadagno è facile e certo» gli aveva assicurato. In un «pizzino» di quelli trovati a Vaccarino il super boss parla per esempio di una stazione di servizio da aprire sull’autostrada A 29 e svela che non ha alcuna difficoltà a parlare con i funzionari dell’Anas. È la mafia che si è trovata nella gestione degli impianti eolici, nella realizzazione di residence turistici, nella filierva della produzione olearia, una organzizazione che ha avuto uomini che dal carcere «convocano» sindaci al cospetto dei loro «emissari». La mafia trapanese di Messina Denaro è più particolare da colpire perchè non compie i delitti tipici dell’organizzazione, omicidi e racket, ma altri reati, corruzione, turbative d’asta, false fatturazioni, subappalti, che sono quelli rispetto ai quali la società continua a disconoscerne la matrice mafiosa o per ignavia o per complicità. Messina Denaro ha dalla sua il fatto che alcuni dei suoi pensieri sembrano essere quelli di politici di oggi, scrive nei «pizzini» contro l’ergastolo ed il 41 bis, parla dei magistrati come dei persecutori e Torquemada.
Le indagini che riguardano la sua cattura sono condotte da un «pool» di investigatori, messo apposta in piedi da tempo dal ministero dell’Interno, ci sono le squadre mobili di Trapani e Palermo e lo Sco.
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