Dove finisce la lotta alle mafie
Ville, società a responsabilità limitata, supermercati, terreni agricoli, condomini, palestre e tanto di più: un autentico tesoro. Sono le proprietà faticosamente sequestrate e confiscate alla mafia, che a partire da questo scorcio di fine anno potrebbero tornare alla mafia. Il problema è nazionale, la preoccupazione nella provincia di Brindisi – alle spalle quasi un decennio di ribalta mafiosa – è alto.
A tredici anni di distanza dalla sua entrata in vigore, una delle leggi più incisive nella lotta alla criminalità organizzata rischia di essere in pericolo, minata nelle sue stesse fondamenta. L’allarme è stato lanciato da Don Luigi Ciotti, presidente di “Libera, associazione contro le mafie”, e raccolto da alcune centinaia di migliaia di cittadini, che hanno testimoniato la propria preoccupazione attraverso una capillare raccolta di firme su tutto il territorio nazionale.
La legge a rischio è la 109/96 per l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie; il pericolo deriverebbe da un emendamento introdotto in Senato alla legge Finanziaria lo scorso 13 novembre, prevedendo la vendita dei beni confiscati che non si riescono a destinare entro tre o sei mesi. E’ forse peregrino prefigurare che alle aste di quei beni così appetibili potranno partecipare, oltre a legittimi speculatori, anche gli stessi mafiosi? Certamente non in prima persona ma attraverso emissari, prestanome, «teste di legno»?
L’altro aspetto preoccupante è che lo Stato dia l’impressione di non confidare in uno strumento potente come quello della legge 109; che non vi creda fino in fondo, «arrendendosi», come denuncia Don Ciotti, «alle difficoltà del loro pieno ed effettivo riutilizzo sociale».
Non si parla di «bruscolini» ma di terreni e proprietà immobiliari per centinaia di milioni di euro. Scorrere l’elenco dei beni sequestrati e confiscati vuol dire anche farsi un’idea ben precisa del «genio» criminale, della versatilità finanziaria di cui i mafiosi sono dotati: possono investire in terreni agricoli, soprattutto dalle nostre parti, in appartamenti o condomini, ma anche nelle più disparate attività commerciali; tutto va bene pur di riciclare il denaro sporco.
Alla luce dei recenti provvedimenti, inutile vanto appare il mantenimento della struttura governativa per la gestione e la destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali: appena due giorni addietro, il Commissario straordinario Antonio Maruccia, magistrato di origini leccesi, ha presentato al Consiglio dei Ministri la relazione annuale sullo stato dell’arte delle attività dell’ente da lui presieduto, parlando esplicitamente di «criticità». Tra i più eclatanti casi di difficoltà citati, quello di un immobile confiscato a Torchiarolo nel lontano 1995, che Tonino Screti, il suo proprietario in odore di mafia, ha continuato ad abitare per la bellezza di 15 anni prima che fosse sgomberato ed affidato ad una coop di ragazzi.
Non si tratta di prese di posizione pregiudiziali, dissennate o avanzate da incompetenti: è una notizia di quattro giorni addietro che un drappello di 40 magistrati la cui principale occupazione è la prevenzione patrimoniale abbiano firmato l’appello di Don Ciotti per manifestare contrarietà alla vendita di beni confiscati alla mafia. «Se lo scopo è quello di fare cassa», afferma il referente di Libera Alessandro Leo, «si sarebbero potuti eliminare i mille sprechi di questa Italia della “casta”, e non depotenziare il contrasto alla criminalità». Paradossale un dettaglio: nel 2009 le confische sono aumentate rispetto agli anni precedenti: che senso ha questo alacre lavoro se potrebbe infine essere vanificato? La mobilitazione non accenna a fermarsi ed anzi prosegue su larga scala, in particolare nelle regioni meridionali che avevano «assaporato» il gusto del riscatto e dell’emancipazione.
Dove andrà a finire la lotta alla mafia dopo l’adozione di questo provvedimento legislativo? Quanto e come perderà in efficacia?
* Gazzetta del Mezzogiorno
Trackback dal tuo sito.