La mafia gelese orfana dei suoi padri putativi
Ci sono stati anni durante i quali le due organizzazioni criminali attive sul territorio gelese, cosa nostra e stidda, potevano gestire centinaia di affiliati, ben distribuiti tra i livelli di direzione e quelli più marcatamente operativi: l’ingresso dentro simili organigrammi segnava per molti giovani l’assunzione di una diversa consapevolezza, umana e sociale, determinata, prevalentemente, dalla certezza di un più intenso profitto economico.
Tutto era permesso e nulla vietato nel costante sforzo di prendersi un’intera città: le sevizie seguite dal totale annichilimento umano, sancito dalla conversione di un corpo in mera cenere, come nei casi dei non ancora maggiorenni, Matteo Cannizzo e Fortunato Belladonna, costituivano l’apice di una strategia volta alla pura e semplice distruzione di chiunque si frapponesse ai nuovi egemoni o non ne rispettasse i parametri imposti.
Ma quel tempo ed i suoi tessitori sono oramai vaghe tracce in una realtà profondamente mutata, anche in conseguenza delle scelte perpetrate da diversi attori della famigerata guerra di mafia gelese.
Molti di questi, infatti, al raggiungimento di una fase cruciale della loro personale esistenza iniziano ad interrogarsi sui motivi che li condussero ad optare per soluzioni esclusivamente idonee ad imporgli un periodo di restrizione della libertà più lungo rispetto a quello vissuto al di fuori delle strutture carcerarie nazionali.
Così molti di quegli stessi giovani che indussero un cronista del calibro di Giorgio Bocca ad utilizzare la definizione di “fondo dell’inferno” per descrivere la Gela di inizio anni novanta decidono, oggi, di lasciarsi alle spalle eventi e scelte talmente destabilizzanti da aver inciso sugli equilibri economici e sociali di un’intera città.
L’opzione assunta da Crocifisso Smorta, un vero leader del gruppo diretto, fino al momento della sua uccisione, da Daniele Emmanuello, costituisce nella sua indiscussa importanza, solo l’ultima fermata di un percorso già intrapreso da decine di ex affiliati.
La loro scelta ha prodotto, inoltre, un inevitabile mutamento delle linee d’indagine tracciate dagli organi inquirenti, certamente favoriti dai racconti resi da coloro che in prima persona avevano vissuto la quotidianità dei clan mafiosi locali.
La tendenza, oramai quasi strutturale, ad operare in conformità alle richieste provenienti dalla magistratura si dimostrò veramente fondata due anni addietro, quando uno degli storici componenti di cosa nostra gelese, Rosario Trubia, membro del gruppo riconducibile ai fratelli Emmanuello, avviò la sua personale opera di ricostruzione di fatti e dinamiche attinenti all’ex casa natale.
Dopo pochi mesi dalla decisione assunta fu possibile condurre una vasta operazione, denominata “Biancone”, volta ad impedire la prosecuzione di un’estesa azione estorsiva posta in essere da componenti di cosa nostra e stidda.
La via tracciata da Rosario Trubia è stata perseguita anche da altri notabili del clan Emmanuello, fra questi non possono trascurarsi i tre fratelli Celona, Emanuele, Luigi ed Angelo, da sempre significative spalle del boss Daniele Emmanuello, capaci di svelare interessanti particolari inerenti gli affari della “famiglia” di appartenenza: il più in vista dei tre, Emanuele, fu a sua volta esecutore delle volontà del capo clan latitante mediante la ricezione di molteplici “pizzini”, spediti da quest’ultimo, riportanti la dettagliata mappa delle attività commerciali da sottoporre a vessazioni, tutti oggetto dell’inchiesta “Reset”.
Una delle defezioni più significative registratasi, invece, sul fronte del gruppo fondato dai boss Gaetano Iannì e Antonio Cavallo, può certamente identificarsi nella figura di Marcello Orazio Sultano, tra le voci maggiormente ascoltate dagli investigatori, con risultati spesso ragguardevoli: si pensi solo al recente blitz, “Scorpione”, in grado di ostacolare le condotte delinquenziali attuate dai componenti del nucleo familiare facente capo a Giuseppe Alfieri.
Gli ultimi mesi sono coincisi, per quanto concerne l’aspetto dei rapporti tra storici aderenti alle locali organizzazioni criminali ed inquirenti, con almeno tre decisivi avvicinamenti, generati dalle volontà espresse da altrettanti nomi di rilievo di cosa nostra gelese.
All’indomani della vasta azione intrapresa dalle forze dell’ordine, indicata come “Atlantide-Mercurio”, Carmelo Barbieri, rappresentate sul territorio del boss ergastolano, Giuseppe Madonia, ha voluto gettarsi alle spalle tutto il proprio passato, accettando le richieste di cooperazione pervenutegli, e realizzando in tal modo un approfondito report dei movimenti e degli interessi coordinati dalla famiglia Madonia e da quelle attratte dal suo baricentro: producendo, come era quasi scontato, frutti praticamente immediati; le inchieste “Gheppio” e “Scorpione” possono, infatti, attribuirsi alle sue approfondite rivelazioni, idonee all’individuazione di taluni soggetti forti attivi nel circondario, fra questi Maurizio Trubia, Maurizio Saverio La Rosa e Giuseppe Alfieri.
Se Carmelo Barbieri viene ritenuto dagli investigatori figura di vertice del clan Madonia, Crocifisso Smorta, al contrario, si è da sempre distinto per lo “spirito di sacrificio” profuso in favore della famiglia Emmanuello, agendo prevalentemente all’interno del settore forse più lucroso per l’intera “azienda”, quello delle estorsioni.
Non a caso il suo nominativo ha trovato ampio spazio nelle liste degli imputati di svariati procedimenti penali, fra i quali quelli denominati “Libera Impresa”e “Redibis”, senza disdegnare l’assunzione di cruciali iniziative: da molti viene indicato tra gli strateghi dell’agguato condotto in prossimità della stazione di servizio Esso di Vittoria, risalente al Gennaio del 1999, a causa del quale cinque persone vennero falciate dalle raffiche di proiettili provenienti dalle canne delle armi utilizzate dai killer gelesi.
A fronte degli intenti esplicitati da due veri amministratori di gruppi assorbiti dalla galassia di cosa nostra deve, inoltre, citarsi l’intenzione, divenuta oramai scelta consapevole, di avviare un dettagliato resoconto delle informazioni a sua disposizione, raggiunta da un “manovale” di lungo corso, Fortunato Ferracane.
Parliamo, infatti, di un aderente della prima ora al gruppo di cosa nostra gelese, mai giunto, però, ad osservare posizioni strategiche di comando, anche se parte attiva in talune eclatanti azioni: una tra tutte l’omicidio di Maurizio Morreale, risalente al 1995, divenuto obiettivo di un commando, eterodiretto da Rosario Trubia, interessato all’eliminazione fisica di un suo rivale nell’ascesa ai vertici del clan Emmanuello, gruppo al quale il neo collaboratore di giustizia è stato in grado di sottrarre, limitandosi ad individuarne l’ubicazione, quattro armi da fuoco a disposizione dei gruppi di assalto.
Bisognerà solo capire se simili svolte possano effettivamente collocarsi entro il limite della concreta volontà di cambiamento oppure presso quello della mera convenienza personale.
Un’unica conclusione appare inattaccabile: l’avanguardia della mafia gelese inizia a riflettere seriamente intorno ad un ventennio di lutti e soprusi.
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