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Stop imposto ad un nuovo gruppo criminale?

Di Rosario Cauchi il . Sicilia

Tutto ha tratto origine da un semplice allontanamento, verificatosi l’11 Dicembre del 2003, quello dell’imprenditore gelese, Salvatore Tomasi: nulla di particolarmente allarmante in una città, però, diversa da Gela e se lo scomparso non avesse operato, prima di assumere la decisione di non dare più notizia di sé ad alcuno, nel settore dell’edilizia.

Il suo corpo, restituito dalle onde del gelido mare d’inverno, venne rintracciato dopo qualche settimana, adagiato sulla spiaggia sita in contrada Manfria.

Ma perché Tomasi, da poco, peraltro, chiamato a svolgere lavori di urbanizzazione all’interno dei cantieri della cosiddetta “Cittadella”, ovvero la vasta area abitativa sorta nei pressi del quartiere Marchitello, per un importo complessivo pari a ottocento milioni delle vecchie lire, avrebbe dovuto scegliere di immettersi su una via priva di qualsiasi corsia di salvataggio?

La risposta, come si verifica sovente in terra di mafia, racchiude connotati quantomai costanti: la violenta pressione impostagli da componenti delle locali organizzazioni malavitose non gli avrebbe lasciato scampo; il raggiungimento di successi professionali, e un appalto da quasi un miliardo di lire può ben definirsi tale, costituisce, in altri contesti di vita, un successo non solo per l’imprenditore bensì, ancora, per gli stessi lavoratori: ma al sud tutto muta, poiché tra i costi d’impresa bisogna necessariamente annoverare quelli destinati a coprire le laute richieste recapitate dagli emissari del clan di turno, in questo caso cosa nostra e stidda.

La ricostruzione del caso Tomasi ha trovato conferma, secondo quanto sostenuto dagli inquirenti, nelle denunce presentate da altri due importanti gruppi dell’edilizia gelese, la Trainito Costruzioni srl e la Psaila Costruzioni srl, impegnati a loro volta nei lavori di realizzazione delle unità abitative della “Cittadella”.

I responsabili di queste entità economiche, Nunzio Psaila e i fratelli Germano e Danilo Trainito, infatti, hanno consentito, rivolgendosi alle autorità competenti, di accendere le luci della “ribalta” mediatica intorno a quello che, al pari dello sfruttamento del servizio di smaltimento dei rifiuti, era divenuto un vero e proprio fondo cassa del consorzio criminale composto da stidda e cosa nostra, sempre pronto ad usufruirne quando vi era necessità di conseguire nuove risorse economiche.

Ma le due compagini criminali si limitavano, per dir così, ad imporre la loro ordinaria tariffa di accreditamento, ovvero una somma corrispondente al due o tre percento dell’importo a base d’asta: contemporaneamente, però, quasi ad agire all’interno degli spazi lasciati vuoti da queste, si muoveva un’ombra “borderline”, in grado di colpire nel corso di momenti totalmente estranei ai lavori di cantiere e all’azione in genere, ovvero le lunghe notti.

Il mattatore delle sorti di questo particolare complesso, composto da varie anime della bassa manovalanza criminale gelese, può individuarsi nella figura di Giuseppe Alfieri, destinatario di un provvedimento di custodia cautelare in carcere, al pari del figlio, Nunzio, e del fratello, Claudio, scaturito dall’operazione “Scorpione”.

Giuseppe Alfieri non può di certo ritenersi una novità dello scenario delinquenziale locale: viene infatti considerato un elemento a disposizione di cosa nostra, come dimostrato dal suo coinvolgimento nella mastodontica operazione, “Tagli Pregiati”, del 2007, volta ad aggredire le infiltrazioni della mafia gelese in quel nord Italia divenuto nuovo eldorado.

Le gesta dei suoi “uomini” erano divenute, qualche mese più tardi, oggetto di analisi da parte delle forze dell’ordine, poiché alla base del blitz, “Iron Man”, volto ad imporre un  drastico blocco ad un’abituale condotta fondata su furti, intimidazioni, attacchi incendiari.

Questa era infatti la caratteristica saliente dell’ “impresa” condotta da Giuseppe Alfieri, muoversi priva di un vero progetto organico, ma sempre attenta alle richieste provenienti dalle famiglie più in vista del panorama malavitoso gelese.

Gli arresti della scorsa settimana, inoltre, dimostrano un salto di qualità realizzato da Alfieri e congiunti, sintetizzato dalla loro capacità di imporre ad imprenditori già sottoposti alla “cura” di cosa nostra e stidda, un ulteriore aggravio, rappresentato dall’offerta di una diffusa attività di vigilanza all’interno dei cantieri, necessaria al fine di evitare ripercussioni, fra le quali furti generalizzati, condotte proprio dalla manodopera a sua disposizione.

Giuseppe Alfieri, a detta degli stessi inquirenti, agiva oramai, in assenza di figure di spicco rappresentative degli storici clan cittadini, alla stregua di vero raccordo fra questi, spingendosi, però, oltre: potendo muoversi in assoluta autonomia con l’intenzione di perseguire specifici progetti personali.

A questo punto sorge un essenziale dubbio: è lecito supporre che una tradizionale azione di polizia, rivolta al contrasto dell’ampio fenomeno estorsivo, abbia consentito di smembrare i tessuti di una nuova ed indipendente entità malavitosa in grado di guadagnare terreno all’interno del “mercato mafioso”?

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