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Il muro di Gela

Di Rosario Cauchi il . Sicilia

Lo scorso 9 novembre il mondo ha ricordato un evento, definito epocale dai maggiori storici attualmente in attività: la caduta del muro di Berlino, infatti, risalente al 1989, segnò una sorta di metaforico passaggio dal bipolarismo geopolitico, occidente liberista contro dimensione collettivista sovietica, ad un globalismo unificante e problematico.

Nel suo piccolo anche la quotidianità gelese in quei giorni veniva rivoluzionata ed insanguinata, costituendo palcoscenico privilegiato non di una rappresentazione beckettiana bensì di una furiosa “guerra civile” innestata da due fazioni in lotta: il ramo locale della multinazionale criminale di cosa nostra in opposizione all’autonomo gruppo della stidda.

Il 1989, in realtà, non può leggersi alla stregua di periodo iniziale della locale faida, ma certamente si è posto quale fase temporale strategica, dominata da un’estrema violenza trasferita tra le strade di una città totalmente disorientata e sconcertata.  Vent’anni sono trascorsi ma ancora oggi si ripresentano in continuazione nomi ed accadimenti tipici di un periodo che i più cercano di rimuovere.

Stava per concludersi il 1987 quando le voglie di profitto, esterne all’attività del Petrolchimico di proprietà dell’Eni, si concentravano intorno ai circa 250 miliardi destinati alla realizzazione della diga Disueri: un obiettivo imprescindibile per i gruppi criminali locali.

La società, Po.Ma., attiva nel settore del movimento terra, si prefiggeva lo scopo di acquisire la maggior parte di quei fondi, sfruttando la nomea criminale dei suoi responsabili, Giuseppe Madonia, già allora legato alla fazione mafiosa dei Santapaola, e Salvatore Polara, inseparabile spalla del futuro maggiorente di cosa nostra; ma la concorrenza non si fece attendere, impersonata da una storica figura del mondo della pastorizia e del settore economico roteante intorno a questo, Salvatore Iocolano, tra i padri fondatori di quella che verrà conosciuta con la denominazione di stidda.

Il risultato di questo contrasto affaristico? Semplice e quanto mai destabilizzante per un comune facente parte della Repubblica italiana all’alba dei tanto declamati anni novanta: 120 morti, utilizzando cifre comunque prive di ulteriori riscontri, mancanti ad esempio degli svariati casi di misteriose scomparse catalogate sotto l’opzione di “lupara bianca”.

Il 1989 fu un anno di violenza e di transito tra due eclatanti eventi, l’uccisione di Salvatore Polara, travolto dai colpi degli stiddari insieme alla moglie e a due figli, posta in essere il 23 Dicembre del 1987, in risposta al delitto di Salvatore Lauretta e Orazio Coccomini componenti dell’opposta compagine, e la strage “della sala giochi” del Novembre 1990, causa di otto morti, pianificata da un’eterogenea coalizione, composta da membri delle tre principali famiglie stiddare della città, Iocolano, Iannì e Cavallo, coadiuvati dai Russo di Niscemi, i Carbonaro di Vittoria e i Sanfilippo di Mazzarino, tesa a dare un’evidente prova della forza raggiunta a livello provinciale e non solo dagli ex pastori. Nonostante questi violenti colpi Giuseppe Madonia riuscì a prevalere, garantendo sostanziose agevolazioni ai rivali.

Il 2009 che sta per concludersi, dopo una fase storica di risurrezione dalle ceneri della più sconvolgente violenza, non ha fatto mancare costanti colpi di scena, agevolati da numerosi processi aventi quali indeclinabili protagonisti i medesimi attori di una pellicola vecchia di un ventennio.

Al centro di un tale percorso di riesumazione del tempo andato vi è indubbiamente il nuovo collaboratore di giustizia, Carmelo Barbieri, vero ministro al servizio del clan Madonia, spinto alla fatidica scelta dopo l’arresto rientrante nell’operazione “Atlantide-Mercurio”.

Dai suoi racconti, intervenuti all’interno dei meccanismi di alcuni fondamentali procedimenti penali, si evince una mai celata tentazione, mantenutasi anche all’indomani dell’armistizio stipulato tra i due gruppi armati, di demolire il regno organizzato da Giuseppe Madonia, non attraverso nuove strategie definite dalla stidda, bensì servendosi di una sorta di golpe autarchico, poiché interno al gruppo di cosa nostra.

La famiglia Cammarata di Riesi, Daniele Emmanuello di Gela e Francesco La Rocca di Caltagirone, si sarebbero posti alla guida di una frangia di dissidenti accomunati da un esclusivo obiettivo: dare il benservito a quello che in origine fu loro mentore, rischiando di percorrere lo scosceso declivio affrontato dagli scissionisti della camorra napoletana rispetto al clan Di Lauro di Scampia. Visione mai trasformatasi in concreta pratica, bloccata soprattutto da un superiore interesse, quello di spartirsi ricchi affari, altrimenti messi in pericolo dall’avvio di una lunga “controversia” interna.

Leggere ed approfondire vicende di questo tipo, anche se taluni potranno dissentire, sostiene il tentativo di fare luce sulle sorti di una città, Gela, improvvisamente trasportata dalla tipica dimensione agricolo-rurale ad una industriale, orfana però di un vero e graduale sviluppo.

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